Il politico, che definisce un'organizzazione fascista "chiaramente razzista", e la giornalista che pubblica le dichiarazioni dell'uomo politico, non rispondono del reato di diffamazione di cui all'art. 595. Secondo la ricostruzione della vicenda, un politico, in occasione di un corteo, aveva definito l'organizzazione promotrice dello stesso come "chiaramente fascista" portatrice di "valori quali la xenofobia, il razzismo, la violenza e l'antisemitismo". In seguito all'articolo, pubblicato nella cronaca di Roma del Corriere della Sera in cui venivano riportate, in virgolettato, le dichiarazioni dell'uomo politico, a carico della giornalista e del politico veniva ipotizzato il reato di diffamazione. Contrariamente alle accuse, il giudice però aveva stabilito che, in riferimento al politico, il fatto fosse scriminato dall'esercizio del diritto di critica politica, mentre per l'articolista, ricorrevano gli estremi per l'applicazione del diritto di cronaca: la giornalista si era infatti limitata a riportare le dichiarazioni del politico, alla cui conoscenza vi era senza dubbio, interesse pubblico. Su ricorso del P.m., i giudici della Corte, hanno risolto la questione confermando la sentenza di merito e precisando che definire "razzista" un"va riconosciuta l'esimente del diritto critica storica e politica nell'attribuzione di espressioni quali nazifascismi e neonazisti, sul riflesso che, alla luce dei dati storici e dell'assetto normativo vigente durante il ventennio fascista, segnatamente delle leggi razziali — r.d. n. 1728 del 1938 e relative leggi di attuazione — la qualità di fascista non può essere depurata dalla qualità di razzista e ritenersi incontaminata dall'accostamento al nazismo, il che fornisce base di verità alle espressioni di critica in quella sede esaminate".
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