La Corte di Cassazione, con sentenza n. 6282 del 18 marzo 2011, ha affermato che il licenziamento intimato al lavoratore a seguito di ricorso giudiziario ed a causa delle posizioni rigide e polemiche assunte nei confronti dell'azienda culminate con un articolo su un quotidiano, non può considerarsi ritorsivo. La vicenda vede protagonista un collaboratore licenziato che in primo grado aveva ottenuto il riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro e la pronuncia di illegittimità del licenziamento ma non il diritto alla reintegra essendo il licenziamento ontologicamente disciplinare ed avendo l'azienda meno di 15 dipendenti. Il lavoratore proponeva appello affermando la natura discriminatoria del recesso ma la Corte territoriale non riteneva che il licenziamento, oltre che una sanzione inflitta illegittimamente, potesse essere considerato un atto vendicativo e di rappresaglia. La Suprema Corte ha precisato che della normativa che si ritiene violata (art. 4 della legge 604 del 1966 e art. 15 della legge 300 del 1970), la giurisprudenza ha dato una interpretazione estensiva ritenendola applicabile anche a fattispecie di licenziamenti che, pur non direttamente corrispondenti alle singole ipotesi espressamente menzionate nelle suddette norme, siano determinati in maniera esclusiva da motivo, illecito, di ritorsione o rappresaglia, e costituiscano cioè l'ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo essenzialmente quindi di natura "vendicativa". Perché si determini questa specifica situazione idonea ad allargare l'area delineata dalla normativa, sottolineano gli Ermellini, è necessario verificare che il recesso sia stato motivato esclusivamente da un intento ritorsivo e trattandosi di una valutazione che attiene al merito della decisione non può essere riformulata in sede di giudizio di legittimità, salvo vizi di motivazione.
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