Quella del finanziamento pubblico ai partiti è una questione che da decenni anima il dibattito politico e giornalistico.
E la tematica risulta quanto mai attuale alla luce del recente decreto legge varato dal governo che contempla l'abolizione dei rimborsi elettorali ai partiti.
Oltre all'obbligo della certificazione esterna dei bilanci dei partiti, il testo prevede una graduale riduzione del finanziamento pubblico e, nel 2017, la sua abolizione.
In realtà il decreto attribuisce a ciascun contribuente la facoltà di destinare il proprio due per mille ad un partito e quindi, sostanza si tratta pur sempre di denaro pubblico che se il contribuente non decidesse di destinare al proprio partito resterebbe della disponibilità dello Stato per poterlo destinare ai servizi diretti cittadini.
insomma non possono certo farci credere che il 2 × 1000 sia semplicemente una donazione decisa dai privati perché in sostanza chi ha deciso di destinare 2 × 1000 usufruisce di fatto di una detrazione totale di quell'importo dall'imposta che dovrebbe versare allo Stato.
Insomma quei 30 o 60 milioni di euro che lo Stato potrebbe incassare in più e destinare ad esempio alla giustizia, alla sanità e ad altri servizi pubblici, finiranno come al solito nelle tasche dei partiti e comunque, per coprire quell'uscita e mantenere lo stesso livello di entrate è inevitabile che si dovranno pagare più tasse.
Il testo del decreto prevede che il limite delle contribuzioni volontarie sia di trecentomila euro annui per i privati (tetto che non vale nel caso di lasciti mortis causa) e in duecentomila euro annui a partito per le persone giuridiche.
Ciò che appare ancora oggi inaccettabile che nel 1993, in sede referendaria, oltre il 90% dei votanti si espresse in favore dell'abolizione della legge allora vigente sul finanziamento pubblico ai partiti. La volontà popolare venne però disattesa in quanto venne attraverso una modifica della legge sui rimborsi elettorali fu lasciata inalterata la sostanza della questione: i contributi per le spese elettorali si risolvono nella corresponsione di consistenti somme di denaro ai partiti del tutto slegate dai costi effettivamente sostenuti per le spese elettorali. Da qui l'improprietà del termine rimborsi: ad ogni tornata elettorale una certa cifra per ogni avente diritto al voto confluisce in un apposito fondo e quest'ultimo viene suddiviso in modo proporzionale tra tutti i partiti che hanno ottenuto almeno l'1% dei voti.
Alla luce di questo quadro normativo e se, come si evince dalla lettera della norma, si tratta di un rimborso delle spese elettorali, una parte dell'opinione pubblica continua a chiedersi se non sia opportuno che i partiti politici restituiscano agli italiani (al welfare e a quei capitoli di spesa pubblica che hanno maggiormente risentito dei tagli) quanto corrisposto a titolo di rimborso, almeno nella misura eccedente l'ammontare degli effettivi costi elettorali.
Per il momento solo il movimento cinque stelle ha restituito 40 milioni di euro di rimborsi elettorali. Da altre parti si continua invece a tergiversare cercando addirittura di trovare giustificazioni ideologiche a ciò che è da considerarsi un grave insulto alla volontà popolare.
Nei giorni scorsi si è aperto anche un acceso dibattito tra Grillo e Renzi. Quest'ultimo infatti aveva detto rivolgendosi al leader dei cinque stelle "Noi siamo pronti a rinunciare ai rimborsi elettorali però tu ti impegni a cambiare la legge elettorale insieme a noi". La risposta è stata lapidaria: "I rimborsi elettorali vanno restituiti agli italiani, non a Grillo. Sono soldi che i partiti hanno incassato aggirando un referendum e che la stessa Corte dei Conti ha denunciato come non dovuti".