Un danno non è dipendente o "giuridicamente" riflesso per il solo fatto che uno analogo possa essere subito anche dalla società o, al limite, da tutti i soci, occorrendo invece che costituisca esattamente una porzione di quello stesso subito dalla (e risarcibile alla) società, la cui reintegrazione a favore del socio sarà (e potrà essere) indiretta. Quando questa possibilità non sussiste, in presenza di danni arrecati alla sfera personale (danni all'immagine, all'onorabilità, ecc.) e patrimoniale del socio (si pensi alla perdita di opportunità economiche e lavorative o alla riduzione del cd. merito creditizio), il danno rimane pur sempre diretto e, quindi, risarcibile al socio dal terzo responsabile.
È questo quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 27733 del 12 dicembre 2012, emessa al termine di un procedimento avanzato da due soci di una società di capitali, i quali lamentavano di aver subito - nella qualità rispettivamente di socio e amministratore socio e, nell'ambito della stessa attività sociale- danni patrimoniali, esistenziali e alla vita di relazione e, ne chiedevano il giusto risarcimento.
Come, l'ente pubblico, socio di una società di capitali ha azione diretta (nei confronti degli amministratori della società, dinanzi al giudice contabile) per il risarcimento del danno all'immagine che può prodursi "immediatamente" in capo ad esso, "per il fatto stesso di essere partecipe di una società, i cui comportamenti illegittimi si siano manifestati, e che non s'identifica con il mero riflesso di un pregiudizio arrecato al patrimonio sociale, indipendentemente, cioè, dall'essere o meno configurabile e risarcibile anche un autonomo e distinto danno all'immagine della medesima società" (Cass., sez. un., n. 26806 del 2009), allo stesso modo deve riconoscersi il diritto alla risarcibilità del danno diretto, patrimoniale e non patrimoniale, al singolo socio di una società di capitali.
Nel far ciò, il giudice del merito deve certamente partire dall'assunto per cui i soci di una società di capitali non hanno titolo per avanzare pretese risarcitorie nei confronti del terzo che, con il suo comportamento illecito abbia danneggiato la società, con conseguente depauperamento del patrimonio personale degli stessi soci o, per la perdita del capitale investito nella società e della possibilità di incassare utili di gestione. (…) La perfetta autonomia patrimoniale inerente alla personalità giuridica della società, comporta, infatti, la netta separazione tra il patrimonio sociale e quello personale dei soci, dalla quale derivano l'esclusiva imputazione alla società stessa dell'attività svolta in suo nome e delle relative conseguenze patrimoniali passive (limitando la responsabilità del socio al solo bene conferito) e l'esclusiva legittimazione della società all'azione risarcitoria nei confronti del terzo; (…) gli effetti negativi sull'interesse economico del socio (riduzione del valore della quota e compromissione della redditività dell'investimento) costituiscono mero riflesso di detto pregiudizio e non conseguenza diretta ed immediata dell'illecito ! (Cass. n. 17938 del 2005; Sez. Un., n. 2734).
Orbene, se tutto ciò è vero, è altresì vero che il giudice del merito, non può fare erronea applicazione di un siffatto principio; egli deve, innanzitutto, indagare la ratio e verificare, di poi, la concreta applicabilità al caso di specie e alla tipologia dei danni in essa dedotti.
La ratio sottesa ad un simile principio - afferma la Corte - è certamente quella per cui "se si ammettesse che i soci di una società di capitali agiscano per ottenere il risarcimento dei danni procurati da terzi alla società, in quanto incidenti sui diritti derivatigli dalla partecipazione sociale ( non potendosi negare lo stesso diritto alla società !) si finirebbe col configurare un duplice risarcimento per lo stesso danno". (Cass. n. 27346 del 2009 cit.).
Ma allora, tutto ciò premesso, e posto altresì che il danno sofferto dal patrimonio della società è per lo più destinato a ripercuotersi anche sui soci, incidendo negativamente sul valore o sulla redditività della loro quota di partecipazione; c'è da chiedersi quand'è che il pregiudizio sofferto dal singolo socio costituisca danno autonomo e indipendente da quello patito dalla società e, quando, al contrario, esso pur coincidendo col danno sociale dia luogo a un diritto al risarcimento, senza, peraltro, configurare quel "duplice risarcimento per lo stesso danno".
Occorre, a tal proposito mantenere ben distinti i danni direttamente inferti al patrimonio del socio (o del terzo) da quelli che sono il mero riflesso di danni sofferti dalla società. Dei danni diretti, cioè di quelli prodotti immediatamente nella sfera giuridico - patrimoniale del socio e che non consistono nella semplice ripercussione di un danno inferto alla società, solo il socio stesso è legittimato a dolersi; di quelli sociali, invece, solo alla società compete il risarcimento, di modo che per il socio anche il ristoro è destinato a realizzarsi unicamente nella medesima maniera indiretta in cui è prodotto il suo pregiudizio. In questa seconda categoria, rientrano tutti i danni derivanti dalla perdita della redditività e del valore della partecipazione (Cass. n. 6364 del 1998) e della possibilità di conseguire gli utili (Cass. n. 6558 del 2011), nonché della perdita del capitale sociale (Cass. n. 15220 del 2010, n. 10271 del 2004, n. 9385 del 1993) e delle potenzialità reddituali della stessa. Qalora, invece, - come nel caso di specie - il socio di una società di capitali lamenti di aver subito danni patrimoniali alla persona, prima ancora che alla qualità di socio, seppure questi ultimi subiti nell'ambito della stessa attività economica e, danni non patrimoniali, conseguenza della ripercussione negativa dei primi alla vita personale e di relazione, non può certamente negarsi - previo loro concreto accertamento - un diritto al relativo ristoro, anche laddove essi costituiscano prima ancora un danno alla società.
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