Avv. Francesco Pandolfi
cassazionista
Patologia contratta su una nave coibentata da amianto
E' ormai principio pacifico in giurisprudenza che le fattispecie relative alla malattia contratta sul posto di lavoro, come quella relativa all'amianto esaminata nella sentenza n° 300/2014 del Tar Liguria, sono disciplinate dall'art. 2087 codice civile, il quale introduce un'ipotesi di responsabilità contrattuale, residuando con ciò alla parte che si assume lesa la prova dell'esistenza di un rapporto di lavoro, del danno subito e del nesso casuale tra l'attività ed il pregiudizio sofferto.
Anche di recente ( Cassazione n° 18626/2013 ) è stato ritenuto che null'altro deve provare il lavoratore che lamenta di aver contratto malattie derivabili dall'esposizione all'amianto, sia per il periodo antecedente che per quello successivo all'introduzione delle normative antinfortunistiche di settore.
Quindi, schematicamente, il Militare che contrae in occasione di lavoro una malattia asbesto correlata deve: 1) provare l'esistenza di un rapporto di lavoro, 2) il danno subito, 3) il nesso casuale tra l'attività lavorativa e il pregiudizio sofferto.
Nel caso vagliato dal Giudice Amministrativo accade quanto segue.
Il Militare ricorrente riferisce di essere stato congedato dall'Arma presso cui prestò servizio per molti anni, ricollegando alle condizioni di lavoro i propri problemi di salute.
L'interessato ricorda di aver più volte richiesto, ma vanamente, che il datore di lavoro apprestasse una miglior tutela della salute nei luoghi di prestazione dell'attività d'istituto, sì che si determinò ad adire il giudice del lavoro di La Spezia per sentir dichiarare l'amministrazione responsabile per l'insorgenza delle patologie denunciate; il tribunale allora adito dichiarò il proprio difetto di giurisdizione, sì che la causa è stata riassunta con apposito atto con cui sono formulate le domande di accertamento e condanna della controparte.
Questa si è costituita in giudizio con memoria, chiedendo respingersi la domanda.
Il tribunale amministrativo ha, dal canto suo, disposto accertamenti medici sulla questione: l'università di Genova ha depositato quindi la relazione demandata.
Il contenzioso è relativo al diniego opposto dall'amministrazione della difesa al riconoscimento della responsabilità dell'amministrazione datrice di lavoro per la patologie che l'interessato ha sviluppato nel tempo.
Il Militare ha prestato servizio per molti anni in qualità di elettricista della marina militare, per oltre quindici è stato imbarcato sulle navi ed ha operato in un ambiente in cui risultava utilizzato l'amianto a fini di coibentazione termica ed acustica.
Tale circostanza non è contestata, posto che la difesa dell'amministrazione ammette che l'asbesto era impiegato nelle testate dei motori, nella coibentazione di apparati posti nei locali apparato-motore e per la coibentazione dei condotti di scarico dei motori, delle tubolature e di taluni apparati di bordo.
La memoria conclusionale dell'avvocatura dello Stato eccepisce invece che le fibre impiegate sul naviglio erano derivate dal crisotilo, sì che esse sarebbero meno pericolose di quelle denominate anfiboli, per cui la loro inalazione non avrebbe potuto comportare delle conseguenze giuridicamente rilevanti.
Quest'ultima tesi non può essere condivisa, posto che la normativa vigente opera delle distinzioni tra i due materiali che sono in via di superamento, come si deduce dalla legislazione europea che tende ad una considerazione unitaria dell' amianto in relazione al rischio che esso ha per la salute dell'uomo (art. 59 ter del d.lvo 19.9.1994, n. 626, introdotto dall'art. 2 del d.lvo 25.7.2006, n. 257).
Il Militare assume che la prolungata esposizione ai materiali nocivi gli ha procurato i gravi danni alla salute che la documentazione medica evidenzia al di là di ogni dubbio, e conclude per la condanna dell'amministrazione militare al risarcimento dei danni subiti, chiedendo l'applicazione dell'art. 2043 c.c.; il Collegio osserva a tale riguardo che spetta alla decisione del giudice la qualificazione della domanda ove la stessa sia di incerta individuazione, mentre la potestà decisionale deve rimanere negli ambiti designati dalle parti, ove le stesse siano state puntuali a tale riguardo.
La questione sorge proprio relativamente all'individuazione operata dal ricorrente dell'art. 2043 c.c. come della norma che fonda il diritto di cui è chiesto l'accertamento: in proposito la giurisprudenza ha acquisito la nozione secondo cui le fattispecie come quelle in questione sono disciplinate dall'art. 2087 c.c. che introduce un'ipotesi di responsabilità contrattuale, residuando con ciò alla parte che si assume lesa la prova dell'esistenza di un rapporto di lavoro, del danno subito e del nesso casuale tra l'attività ed il pregiudizio sofferto.
Diverso è lo stato in cui l'art. 2043 c.c. pone il ricorrente, che è onerato della dimostrazione di tutti i profili della vicenda dedotta in causa; in tale situazione si osserva che l'esplicita indicazione dell'art. 2043 c.c. è tuttavia accompagnata dall'enunciazione dei presupposti per il riconoscimento del diritto azionato ai sensi dell'art. 2087 c.c. sì che la decisione può essere assunta sulla base di entrambe le disposizioni.
Tanto premesso va notato che le osservazioni già svolte consentono di ritenere assodate la dipendenza dell'interessato dalla marina militare, la sua presenza sulle navi coibentate da amianto per oltre quindici anni, l'attività di elettricista svolta sulle stesse che comportava la non contestata necessità di bucare o movimentare i pannelli di amianto, e le malattie contratte dal ricorrente.
La ctu licenziata dal tribunale ha appurato a quest'ultimo proposito che il sottufficiale si sottopose ad una serie di esami volti ad accertare l'eventuale insorgenza del temuto mesotelioma pleurico, malattia letale di cui è predicata la diretta derivazione dall'inalazione delle fibre di asbesto.
Nel giro di meno di un anno l'interessato fu sottoposto all'asportazione di parte della pleura, restò assente dal lavoro per un anno e la conclusione fu che egli risulta affetto da asbestosi pleuro-polmonare di grado medio-grave, situazione che comporta la marcata ipofonesi del'ambito toracico destro ed alla base del sinistro, la riduzione del murmure vescicolare più marcata a destra, la tosse stizzosa specie notturna, la dispnea e la febbre riacutizzante.
La ctu ha evidenziato la diretta derivazione della malattia dalla prolungata esposizione del militare alle fibre dell'amianto, con una osservazione sul nesso causale che il tribunale condivide.
L'esame dei reperti e delle risultanze delle tac e pet disposte sul paziente ha infatti sempre fornito indicazioni univoche circa la patologia sopra indicata, smentendo così le conclusioni cui erano giunti i medici militari, che avevano contrastato tale diagnosi sulla base del mancato rinvenimento delle fibre del minerale all'interno dei tessuti esaminati. La ctu osserva invece in modo convincente che tale omessa repertazione deriva dalla natura degli accertamenti svolti, che sono in grado di sincerare altrimenti circa la derivazione dall'asbesto degli ispessimenti pleurici, la situazione che aveva indotto nel 2006 alla parziale asportazione del tessuto compromesso.
La conclusione dei ctu è nel senso che "...non è possibile escludere che le patologie polmonari da cui è affetto ... siano causalmente dipendenti dal servizio prestato dal periziando nella Marina Militare a causa dell'esposizione occupazionale all'amianto e che da essa sia derivata un'infermità qualificabile in Tabella A categoria sesta...".
In ordine al nesso causale la difesa dell'amministrazione argomenta dalla formulazione della conclusione del ctu che l'interessato non avrebbe adempiuto all'onere che la legge gli imponeva, di dar la prova compiuta sia del rapporto istituibile tra il lavoro e la patologia, e soprattutto sul profilo soggettivo, non essendo stata offerta una convincente dimostrazione della colpa in cui l'amministrazione militare incorse per non aver apprestato un'idonea prevenzione in favore dei dipendenti.
In ordine al primo profilo il tribunale rileva che la locuzione utilizzata dalla relazione in atti è sufficiente a dar conto dell'esistenza del nesso causale dell'illecito denunciato; la discussione del caso svolta dai medici universitari officiati ed i riscontri menzionati rassicurano nell'affermare che la prolungata permanenza in ambienti contornati dall'amianto si pone quanto meno come concausa nell'origine e nello sviluppo della malattia, che è di univoca derivazione dell'inalazione e ingestione delle fibre del minerale.
Il profilo soggettivo va esaminato dapprima con riferimento all'art. 2087 c.c.
A tale proposito deve richiamarsi la sentenza Cass n° 18626/13, che ha ritenuto che incomba al datore di lavoro la prova dell'approntamento delle misure necessarie per la tutela della salute sui luoghi di lavoro, per il periodo antecedente e per quello successivo all'entrata in vigore delle norme che hanno bandito l'amianto dall'impiego industriale.
Tuttavia, anche a voler considerare la questione dal punto di vista dell'art. 2043 c.c. si osserva che da tempo si prescinde dalla rigorosa dimostrazione dell'elemento soggettivo per la ripartizione dei rischi derivanti dalla commissione dei fatti illeciti, facendosi preferire l'accollo di tali situazioni ai soggetti che sono più attrezzati a sopportarne le conseguenze. In tal senso un datore di lavoro, soprattutto se caratterizzato dal rilievo che ha l'amministrazione dello Stato, ha maggiori possibilità del singolo soggetto di ripartire i costi derivanti dalle conseguenze delle condotte illecite tenute.
Ne deriva che anche in questa situazione può ritenersi comprovata la responsabilità dell'amministrazione militare.
In ordine alla quantificazione del pregiudizio si osserva che la relazione in atti ha qualificato la patologia e le sue conseguenze come già osservato; si tratta tuttavia di una determinazione allo stato impossibile, per conseguire la quale sarebbe necessaria un'ulteriore ctu, apparendo invece più consona alla situazione una decisione basata sulla previsione dell'art. 34 comma 4 del d.lvo 2.7.2010, n. 104, disponendo perché l'amministrazione debitrice proponga al creditore un congruo importo per ristorare il danno arrecato; il termine occorrente va fissato a tale riguardo in giorni sessanta dalla notificazione della sentenza.
Il ricorso viene pertanto accolto e, per l'effetto, si dichiara la responsabilità del ministero della difesa nella causazione delle patologie respiratorie di cui soffre il ricorrente, valutate in tabella A, categoria sesta; si condanna il ministero della difesa al risarcimento del danno subito dal ricorrente tenuto conto dei principi indicati in parte motiva e si fissa il termine di giorni sessanta decorrente dalla notificazione della presente sentenza perché l'amministrazione militare proponga al ricorrente l'importo ritenuto congruo per il ristoro del danno patito, salvo il procedimento di cui all'art. 34 comma 4 secondo alinea c.p.a. in caso di inerzia dell'amministrazione o di disaccordo.
Avv. Francesco Pandolfi diritto militare diritto amministrativo
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