di Marina Crisafi - Se non sono bastati i "flash mob" del primo maggio a Roma o le 30mila lucciole "sbarcate" all'Expo per offrire i loro servigi, né l'ultima proposta di legge presentata in Parlamento, per convincere il legislatore a considerare ormai superata la legge Merlin, ci pensa l'Agenzia delle Entrate a "legalizzare" la prostituzione per lo meno dal punto di vista fiscale.
E col fisco si sa non si scherza.
L'hanno scoperto a proprie spese quattro prostitute riminesi che si sono viste recapitare cartelle di pagamento a diversi zeri.
Per gli ispettori del Fisco, infatti, le donne, pur ufficialmente disoccupate, avevano conti in banca da capogiro. Chiamate ad ulteriori accertamenti, le quattro hanno confessato che il loro vero mestiere era quello più antico del mondo, sperando così di farla franca. Ma l'Agenzia non si è persa d'animo e le ha "regolarizzate" aprendo d'ufficio la partita Iva come lavoratrici autonome.
"Rispolverando" una sentenza
della Cassazione di qualche anno fa (cfr. Cass. sez. tributaria, n. 20528/2010) che aveva affermato che anche i proventi derivanti dalla prostituzione sono sottoposti a tassazione (Irap, Irpef, Iva) dal momento che "pur essendo tale attività discutibile sul piano morale, non può essere certamente ritenuta illecita", le Entrate hanno quindi costretto le "lucciole" a pagare tasse e contributi sulle loro prestazioni.Le donne, ovviamente, hanno annunciato già i ricorsi, ma intanto le partite Iva sono state aperte e l'attività, non esistendo un'apposita causale dedicata al "meretricio", è stata fatta rientrare nella categoria dei "servizi alla persona".
Così, per la prima volta, la prostituzione, pur non essendo riconosciuta legalmente, viene considerata come attività lavorativa autonoma da tassare regolarmente come tante altre.
Un'altra delle contraddizioni tipicamente italiane, insomma, in cui si nega l'evidenza pur di mantenere inalterata l'"immagine" puritana del Bel Paese. Ma quando si tratta di denaro, soprattutto in tempi di crisi, si sa, tutto fa brodo.