Il 'postino', vale a dire colui che recapita la posta ad un mafioso per conto degli esponenti dell'associazione, non e' di per se' mafioso. Lo dice la Corte di Cassazione che ha annullato la condanna per associazione a delinquere di stampo mafioso nei confronti di Michele G., un 36enne catanese al quale il Tribunale di Catania aveva applicato la misura della custodia cautelare in carcere 'per avere fatto parte di un'associazione di tipo mafioso denominata 'Cappello' dedita a delitti contro la persona e il patrimonio'. La sua 'mafiosita', era stata dedotta 'dal contenuto di una conversazione telefonica avuta con un sodale, nel corso della quale quest'ultimo lo rimproverava per non avere mantenuto il riserbo su un delicato incarico consistente nel recapitare a Napoli una missiva riservata destinata ad un detenuto in carcere per gravi imputazioni di natura associativa'. Per la Suprema Corte, che ha accolto il ricorso del 'postino' indagato, la 'mera consegna di una lettera chiusa non integra certamente quell'apporto necessario e insostituibile ai fini della realizzazione degli scopi del sodalizio individuato dalla giurisprudenza come requisito indispensabile della condotta di concorso nel reato' previsto dall'art. 416 bis del codice penale. Scrivono i giudici della Sesta sezione penale (sentenza 15197) che 'non sembra affatto logicamente dimostrata, neppure a livello indiziario, la interdipendenza tra la riservatezza dell'incarico e la qualita' di appartenente al sodalizio mafioso'. Del resto, aggiungono gli 'ermellini' rinviando il caso al Tribunale di Catania, 'la fiducia' che il sodale Angelo C. 'riponeva' nell'indagato 'poteva avere causa nei piu' vari rapporti, se si vuole anche di natura illecita, ma non necessariamente nell'adesione di quest'ultimo al medesimo sodalizio'. In altre parole, piazza Cavour sostiene che, 'accettando l'incarico' di recapitare una missiva ad un detenuto pericoloso, non e' detto che il 'postino' 'da extraneus' sappia 'di contribuire al mantenimento di una organizzazione criminosa'.
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