Nonostante chiare ed univoche statuizioni di diritti paritari finalizzati all'affermazione costituzionale della stessa età massima lavorativa fra i due sessi (intesa quale garanzia della stabilità reale per l'identica durata della massima età lavorativa, attualmente fissata a 65 anni, in coincidenza con quella dell'uomo) persistono tentativi di negare, di fatto e in diritto, tale garanzia, avvalendosi strumentalmente di infelici formulazioni di un inadeguato legislatore che si è atteggiato a soggetto «disaccorto» nel momento di stabilire, con la mano sinistra, disposizioni in tema di tutela per la fase di risoluzione del rapporto senza tener conto delle implicazioni che introduceva, con la mano destra, con disposizioni afferenti l'elevazione dell'età pensionabile. Ma tali disarmonie sono talmente intuitive e talmente sanabili sulla base della ratio equiparativa (in ordine all'età massima lavorativa che identifica la durata delle garanzie per il lavoratore di non essere sottoposto al recesso discrezionale dell'azienda ed al tempo stesso esonera da qualsiasi preventiva comunicazione - cd. opzione - colei che intenda proseguire il rapporto fino ai 65 anni) affermata da ben tre sentenze della Corte costituzionale (n. 137/1986, n. 498/1988, n. 256/2002) che coloro che ad esse non fanno riferimento alcuno, inducono nell'osservatore esterno il legittimo sospetto di voler deliberatamente compiere un atto di forza antigiuridico, avvalendosi strumentalmente di sussistenti disarmonie formali dell'ordinamento lavoristico. Tentiamo di fornire una spiegazione chiarificativa, che necessita di una (tediosa) ricostruzione storica, da noi peraltro limitata allo stretto necessario. (Prof. Mario Meucci)
Articolo del Prof. Mario Meucci
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