Rilevanza della questione
Ai fini della ammissibilità della questione innanzi Corte costituzionale occorre dimostrare, anzitutto, la sua rilevanza nel giudizio a quo e, cioè, l'impossibilità di definire quest'ultimo indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità, il tutto ai sensi dell'art. 23, secondo comma, legge costituzionale n. 87 del 1953. A tal fine il giudice a quo dovrà: - accertarsi e dichiarare nell'ordinanza che l'appello sia proposto avverso una sentenza emessa da un giudice di pace secondo equità a norma dell'art. 113, secondo comma, primo periodo, c.p.c.; - accertarsi e dichiarare nell'ordinanza che la sentenza del giudice di pace decida totalmente il merito della questione; - al fine di dimostrare che la norma impugnata è temporalmente applicabile al giudizio a quo, accertarsi e dichiarare nell'ordinanza che la sentenza del giudice di pace, avverso la quale è stato proposto l'appello, è stata pubblicata dopo il 1° marzo 2006, previsto dall'art. 27, comma 1, decreto legislativo n. 40/2006 come termine iniziale per l'applicabilità della norma stessa; - rilevare che l'eventuale dichiarazione di illegittimità della norma in questione inciderebbe senza dubbio sulla definizione del giudizio a quo, dovendo questo essere dichiarato inammissibile, se la norma fosse dichiarata illegittima, ed ammissibile in caso contrario. Non manifesta infondatezza della questione in relazione agli 76 e 77, primo comma della Costituzione Il nuovo art. 339, terzo comma, c.p.c., come modificato dall'art. 1, decreto legislativo 2 febbraio 2006 n. 40, dispone che "Le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell'articolo 113, secondo comma, sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia". Tale norma ha modificato il terzo comma dell'art. 339, c.p.c., ai sensi del quale erano sempre inappellabili le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità. Il Governo, quindi, con la norma impugnata, ha reso in ogni caso appellabili, benché per alcuni motivi soltanto, le sentenze equitative del giudice di pace (escludendone in maniera assoluta, pertanto, la ricorribilità immediata in Cassazione) ma, in tal modo, ha oltrepassato i limiti imposti dalla legge di delega 14 maggio 2005, n. 80, il cui art. 1, terzo comma, lettera a, consentiva al Governo di escludere la ricorribilità immediata in Cassazione (e, dunque, di prevedere l'appellabilità), non per le sentenze equitative del giudice di pace, ma per le sentenze, emesse da qualsiasi giudice, compreso il giudice di pace, che "decidono questioni SENZA DEFINIRE IL GIUDIZIO" (cosiddette sentenze non definitive) mentre obbligava il governo a prevedere "la ricorribilità immediata delle sentenze che decidono parzialmente il merito". Non c'è traccia, infatti, nella legge di delega di una previsione che consenta al Governo di escludere la diretta ricorribilità in Cassazione per le sentenze equitative del giudice di pace che definiscano il giudizio. Tentando di interpretare la norma impugnata in maniera conforme alla Costituzione (come la Corte costituzionale esige quando è possibile, almeno in teoria, una molteplice interpretazione della norma, come nel nostro caso), si potrebbe affermare, in linea puramente astratta, che l'art. 1, terzo comma, lettera a, della legge di delega n. 80/2005, imponendo al Governo di stabilire la RICORRIBILITA' immediata in Cassazione per le sentenze che decidono PARZIALMENTE il merito (il che, comunque, non è stato fatto dal Governo, come si vedrà meglio in seguito), attribuisca all'Esecutivo, leggendo all'inverso la norma, anche il potere di disporre la NON ricorribilità immediata in Cassazione per le sentenze che decidono TOTALMENTE il merito, sicché, almeno per le sentenze totalmente decisive, il decreto potrebbe considerarsi, secondo questa tesi, legittimo (ma non è così, come si vedrà fra breve). La suddetta tesi, tuttavia, è del tutto infondata. Il menzionato art. 1, terzo comma, lettera a, infatti, non può essere letto al contrario - nel senso di ritenere NON immediatamente ricorribili in Cassazione le sentenze che decidono TOTALMENTE il merito - poiché il testo della norma NON è formulato in maniera esclusiva. In altri termini, il citato art. 1, non riservando l'immediata ricorribilità in Cassazione esclusivamente per le pronunce che decidono parzialmente il merito, non la preclude per le altre sentenze. Pertanto, dal carattere non esclusivo che avrebbe dovuto connotare, nelle intenzioni della legge di delega (non rispettate dal Governo), la ricorribilità in Cassazione delle sentenze che decidono parzialmente il merito, può desumersi che il Governo avrebbe dovuto lasciare inalterata la ricorribilità immediata in Cassazione per quelle pronunce che, al tempo della delega, già erano direttamente ricorribili come, ad esempio, le sentenze equitatitive emesse dal giudice di pace ai sensi dell'art. 113, secondo comma, primo periodo, c.p.c., le quali erano, appunto, immediatamente ricorribili in Cassazione anche se decidevano totalmente il merito, proprio in virtù dell'art. 339, terzo comma, c.p.c., ante riforma. Tentando nuovamente di trovare un'interpretazione della norma incriminata conforme alla Costituzione, si potrebbe affermare che - leggendo all'inverso ancora una volta tale norma nella parte in cui dispone che le sentenze del giudice di pace emesse secondo equità sono appellabili esclusivamente per alcuni motivi - si potrebbe giungere alla conclusione che, per gli altri vizi di legittimità non previsti dalla norma (in particolare, per i restanti motivi previsti dall'art. 360 c.p.c.), sarebbe proponibile, per le menzionate sentenze, il ricorso diretto in Cassazione e che, quindi, secondo questa tesi, la norma in questione sarebbe legittima, almeno per quanto riguarda la diretta ricorribilità in Cassazione per i vizi di legittimità da essa non contemplati. Tale interpretazione, però, quand'anche fosse in astratto condivisibile, varrebbe a giustificare solo in parte la legittimità della norma impugnata e, più precisamente, per quella parte che non esclude il diretto ricorso in Cassazione in ordine ai vizi non menzionati nella norma in questione, ma non varrebbe a giustificare la legittimità di quest'ultima anche per la parte che esclude il diretto ricorso in Cassazione per i motivi in essa espressi, essendo tale esclusione del tutto arbitraria, in quanto non prevista della legge di delega, come si è visto innanzi. E' pur vero, comunque, che la norma impugnata, prevedendo l'appellabilità delle sentenze equitative del giudice di pace anche per violazione dei principi regolatori della materia, ha modificato la precedente disciplina non solo in ordine all'autorità competente per l'impugnazione (che è, in primo luogo, il tribunale e, poi, la Corte di Cassazione, mentre prima era direttamente e solamente quest'ultima), ma anche in ordine ai vizi di legittimità idonei a proporre detta impugnazione. Infatti, mentre prima occorreva, per ricorrere in Cassazione, la violazione dei principi informatori della materia, oggi è sufficiente, per appellare la sentenza, la violazione dei principi regolatori della materia. Seguendo questa tesi, quindi, potrebbe affermarsi che, attualmente, il ricorso immediato in Cassazione sia ancora possibile, sia pur limitatamente ai casi in cui la sentenza equitativa del giudice di pace violasse i principi informatori della materia. Sennonché, anche questa volta, tale interpretazione, quand'anche fosse in astratto condivisibile, varrebbe a giustificare solo in parte la legittimità della norma impugnata e, più precisamente, per quella parte che non esclude il diretto ricorso in Cassazione in ordine alla violazione dei principi informatori della materia, ma non varrebbe a giustificarla anche per la parte che esclude il diretto ricorso in Cassazione per i vizi espressi nella norma stessa, essendo tale parte il palese frutto di un eccesso di delega da parte dell'Esecutivo. A ciò si aggiunga che la legge di delega, allorquando ha inteso escludere la diretta ricorribilità in Cassazione per determinate pronunce, lo ha fatto espressamente, come è accaduto, in forza dell'art. 2 del decreto legislativo n. 40/2006, per le sentenze (già viste sopra) che decidono questioni senza definire il giudizio (coseddette sentenze non definitive), il che induce a ritenere del tutto arbitrario l'intervento del Governo nel punto in cui ha impedito, anche per le sentenze equitative del giudice di pace, la diretta ricorribilità in Cassazione. Una volta effettuati inutilmente i tentativi di interpretare la norma impugnata in maniera conforme alla Costituzione, si può concludere rilevando che: 1) il Governo ha omesso di prevedere una norma che sancisse la ricorribilità immediata delle sentenze che decidono parzialmente il merito (ma tale manchevolezza, anzitutto non riguarda il giudizio a quo e, poi, non può dar vita ad alcuna censura da parte della Corte Costituzionale, bensì, al limite, solo ad un ammonimento verso il legislatore delegato); 2) il Governo ha escluso, come si è visto sopra, la diretta ricorribilità in Cassazione per TUTTE le sentenze DEFINITIVE emesse secondo equità dal giudice di pace, sia che decidano totalmente il merito, che parzialmente, ma, in tal modo, l'Esecutivo non ha assolutamente rispettato la legge di delega, in quanto, nel caso delle sentenze totalmente decisive, esso è andato OLTRE i poteri della delega - non avendo quest'ultima attribuito al Governo alcun potere in tal senso - e, nel caso delle sentenze parzialmente decisive, si è posto addirittura CONTRO i principi stabiliti dalla legge di delega, la quale, come si è detto, aveva delegato il Governo a disporre esattamente il contrario di quanto questo ha fatto e, cioè, a disporre l'immediata ricorribilità in Cassazione per le sentenze che decidono parzialmente il merito, emesse da qualsiasi giudice, ivi compreso il giudice di pace. Pertanto, l'art. 1 del decreto legislativo n. 40/2006, sostitutivo dell'art. 339, terzo comma, c.p.c., escludendo la ricorribilità immediata in Cassazione per le sentenze definitive che decidono totalmente il merito pronunciate dal giudice di pace secondo equità (accantonando, in questa sede, la questione di legittimità costituzionale, pur astrattamente configurabile, dell'art. 339, terzo comma, c.p.c. nella parte in cui esclude la ricorribilità immediata per le sentenze definitive che decidono parzialmente il merito, non riguardando il presente articolo), ha superato i limiti stabiliti dalla legge di delega, sicché va dichiarato illegittimo per conflitto con gli articoli 76 e 77, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui prevede l'appellabilità - e, quindi, la non ricorribilità immediata in Cassazione - delle sentenze che decidono totalmente il merito emesse dal giudice di pace secondo equità a norma dell'art. 113, secondo comma, c.p.c..
Avv. Roberto Napolitano
Ai fini della ammissibilità della questione innanzi Corte costituzionale occorre dimostrare, anzitutto, la sua rilevanza nel giudizio a quo e, cioè, l'impossibilità di definire quest'ultimo indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità, il tutto ai sensi dell'art. 23, secondo comma, legge costituzionale n. 87 del 1953. A tal fine il giudice a quo dovrà: - accertarsi e dichiarare nell'ordinanza che l'appello sia proposto avverso una sentenza emessa da un giudice di pace secondo equità a norma dell'art. 113, secondo comma, primo periodo, c.p.c.; - accertarsi e dichiarare nell'ordinanza che la sentenza del giudice di pace decida totalmente il merito della questione; - al fine di dimostrare che la norma impugnata è temporalmente applicabile al giudizio a quo, accertarsi e dichiarare nell'ordinanza che la sentenza del giudice di pace, avverso la quale è stato proposto l'appello, è stata pubblicata dopo il 1° marzo 2006, previsto dall'art. 27, comma 1, decreto legislativo n. 40/2006 come termine iniziale per l'applicabilità della norma stessa; - rilevare che l'eventuale dichiarazione di illegittimità della norma in questione inciderebbe senza dubbio sulla definizione del giudizio a quo, dovendo questo essere dichiarato inammissibile, se la norma fosse dichiarata illegittima, ed ammissibile in caso contrario. Non manifesta infondatezza della questione in relazione agli 76 e 77, primo comma della Costituzione Il nuovo art. 339, terzo comma, c.p.c., come modificato dall'art. 1, decreto legislativo 2 febbraio 2006 n. 40, dispone che "Le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell'articolo 113, secondo comma, sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia". Tale norma ha modificato il terzo comma dell'art. 339, c.p.c., ai sensi del quale erano sempre inappellabili le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità. Il Governo, quindi, con la norma impugnata, ha reso in ogni caso appellabili, benché per alcuni motivi soltanto, le sentenze equitative del giudice di pace (escludendone in maniera assoluta, pertanto, la ricorribilità immediata in Cassazione) ma, in tal modo, ha oltrepassato i limiti imposti dalla legge di delega 14 maggio 2005, n. 80, il cui art. 1, terzo comma, lettera a, consentiva al Governo di escludere la ricorribilità immediata in Cassazione (e, dunque, di prevedere l'appellabilità), non per le sentenze equitative del giudice di pace, ma per le sentenze, emesse da qualsiasi giudice, compreso il giudice di pace, che "decidono questioni SENZA DEFINIRE IL GIUDIZIO" (cosiddette sentenze non definitive) mentre obbligava il governo a prevedere "la ricorribilità immediata delle sentenze che decidono parzialmente il merito". Non c'è traccia, infatti, nella legge di delega di una previsione che consenta al Governo di escludere la diretta ricorribilità in Cassazione per le sentenze equitative del giudice di pace che definiscano il giudizio. Tentando di interpretare la norma impugnata in maniera conforme alla Costituzione (come la Corte costituzionale esige quando è possibile, almeno in teoria, una molteplice interpretazione della norma, come nel nostro caso), si potrebbe affermare, in linea puramente astratta, che l'art. 1, terzo comma, lettera a, della legge di delega n. 80/2005, imponendo al Governo di stabilire la RICORRIBILITA' immediata in Cassazione per le sentenze che decidono PARZIALMENTE il merito (il che, comunque, non è stato fatto dal Governo, come si vedrà meglio in seguito), attribuisca all'Esecutivo, leggendo all'inverso la norma, anche il potere di disporre la NON ricorribilità immediata in Cassazione per le sentenze che decidono TOTALMENTE il merito, sicché, almeno per le sentenze totalmente decisive, il decreto potrebbe considerarsi, secondo questa tesi, legittimo (ma non è così, come si vedrà fra breve). La suddetta tesi, tuttavia, è del tutto infondata. Il menzionato art. 1, terzo comma, lettera a, infatti, non può essere letto al contrario - nel senso di ritenere NON immediatamente ricorribili in Cassazione le sentenze che decidono TOTALMENTE il merito - poiché il testo della norma NON è formulato in maniera esclusiva. In altri termini, il citato art. 1, non riservando l'immediata ricorribilità in Cassazione esclusivamente per le pronunce che decidono parzialmente il merito, non la preclude per le altre sentenze. Pertanto, dal carattere non esclusivo che avrebbe dovuto connotare, nelle intenzioni della legge di delega (non rispettate dal Governo), la ricorribilità in Cassazione delle sentenze che decidono parzialmente il merito, può desumersi che il Governo avrebbe dovuto lasciare inalterata la ricorribilità immediata in Cassazione per quelle pronunce che, al tempo della delega, già erano direttamente ricorribili come, ad esempio, le sentenze equitatitive emesse dal giudice di pace ai sensi dell'art. 113, secondo comma, primo periodo, c.p.c., le quali erano, appunto, immediatamente ricorribili in Cassazione anche se decidevano totalmente il merito, proprio in virtù dell'art. 339, terzo comma, c.p.c., ante riforma. Tentando nuovamente di trovare un'interpretazione della norma incriminata conforme alla Costituzione, si potrebbe affermare che - leggendo all'inverso ancora una volta tale norma nella parte in cui dispone che le sentenze del giudice di pace emesse secondo equità sono appellabili esclusivamente per alcuni motivi - si potrebbe giungere alla conclusione che, per gli altri vizi di legittimità non previsti dalla norma (in particolare, per i restanti motivi previsti dall'art. 360 c.p.c.), sarebbe proponibile, per le menzionate sentenze, il ricorso diretto in Cassazione e che, quindi, secondo questa tesi, la norma in questione sarebbe legittima, almeno per quanto riguarda la diretta ricorribilità in Cassazione per i vizi di legittimità da essa non contemplati. Tale interpretazione, però, quand'anche fosse in astratto condivisibile, varrebbe a giustificare solo in parte la legittimità della norma impugnata e, più precisamente, per quella parte che non esclude il diretto ricorso in Cassazione in ordine ai vizi non menzionati nella norma in questione, ma non varrebbe a giustificare la legittimità di quest'ultima anche per la parte che esclude il diretto ricorso in Cassazione per i motivi in essa espressi, essendo tale esclusione del tutto arbitraria, in quanto non prevista della legge di delega, come si è visto innanzi. E' pur vero, comunque, che la norma impugnata, prevedendo l'appellabilità delle sentenze equitative del giudice di pace anche per violazione dei principi regolatori della materia, ha modificato la precedente disciplina non solo in ordine all'autorità competente per l'impugnazione (che è, in primo luogo, il tribunale e, poi, la Corte di Cassazione, mentre prima era direttamente e solamente quest'ultima), ma anche in ordine ai vizi di legittimità idonei a proporre detta impugnazione. Infatti, mentre prima occorreva, per ricorrere in Cassazione, la violazione dei principi informatori della materia, oggi è sufficiente, per appellare la sentenza, la violazione dei principi regolatori della materia. Seguendo questa tesi, quindi, potrebbe affermarsi che, attualmente, il ricorso immediato in Cassazione sia ancora possibile, sia pur limitatamente ai casi in cui la sentenza equitativa del giudice di pace violasse i principi informatori della materia. Sennonché, anche questa volta, tale interpretazione, quand'anche fosse in astratto condivisibile, varrebbe a giustificare solo in parte la legittimità della norma impugnata e, più precisamente, per quella parte che non esclude il diretto ricorso in Cassazione in ordine alla violazione dei principi informatori della materia, ma non varrebbe a giustificarla anche per la parte che esclude il diretto ricorso in Cassazione per i vizi espressi nella norma stessa, essendo tale parte il palese frutto di un eccesso di delega da parte dell'Esecutivo. A ciò si aggiunga che la legge di delega, allorquando ha inteso escludere la diretta ricorribilità in Cassazione per determinate pronunce, lo ha fatto espressamente, come è accaduto, in forza dell'art. 2 del decreto legislativo n. 40/2006, per le sentenze (già viste sopra) che decidono questioni senza definire il giudizio (coseddette sentenze non definitive), il che induce a ritenere del tutto arbitrario l'intervento del Governo nel punto in cui ha impedito, anche per le sentenze equitative del giudice di pace, la diretta ricorribilità in Cassazione. Una volta effettuati inutilmente i tentativi di interpretare la norma impugnata in maniera conforme alla Costituzione, si può concludere rilevando che: 1) il Governo ha omesso di prevedere una norma che sancisse la ricorribilità immediata delle sentenze che decidono parzialmente il merito (ma tale manchevolezza, anzitutto non riguarda il giudizio a quo e, poi, non può dar vita ad alcuna censura da parte della Corte Costituzionale, bensì, al limite, solo ad un ammonimento verso il legislatore delegato); 2) il Governo ha escluso, come si è visto sopra, la diretta ricorribilità in Cassazione per TUTTE le sentenze DEFINITIVE emesse secondo equità dal giudice di pace, sia che decidano totalmente il merito, che parzialmente, ma, in tal modo, l'Esecutivo non ha assolutamente rispettato la legge di delega, in quanto, nel caso delle sentenze totalmente decisive, esso è andato OLTRE i poteri della delega - non avendo quest'ultima attribuito al Governo alcun potere in tal senso - e, nel caso delle sentenze parzialmente decisive, si è posto addirittura CONTRO i principi stabiliti dalla legge di delega, la quale, come si è detto, aveva delegato il Governo a disporre esattamente il contrario di quanto questo ha fatto e, cioè, a disporre l'immediata ricorribilità in Cassazione per le sentenze che decidono parzialmente il merito, emesse da qualsiasi giudice, ivi compreso il giudice di pace. Pertanto, l'art. 1 del decreto legislativo n. 40/2006, sostitutivo dell'art. 339, terzo comma, c.p.c., escludendo la ricorribilità immediata in Cassazione per le sentenze definitive che decidono totalmente il merito pronunciate dal giudice di pace secondo equità (accantonando, in questa sede, la questione di legittimità costituzionale, pur astrattamente configurabile, dell'art. 339, terzo comma, c.p.c. nella parte in cui esclude la ricorribilità immediata per le sentenze definitive che decidono parzialmente il merito, non riguardando il presente articolo), ha superato i limiti stabiliti dalla legge di delega, sicché va dichiarato illegittimo per conflitto con gli articoli 76 e 77, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui prevede l'appellabilità - e, quindi, la non ricorribilità immediata in Cassazione - delle sentenze che decidono totalmente il merito emesse dal giudice di pace secondo equità a norma dell'art. 113, secondo comma, c.p.c..
Avv. Roberto Napolitano
Altri articoli che potrebbero interessarti:
In evidenza oggi: