Lo spread è tornato ai livelli di quando Berlusconi sedeva a palazzo Chigi. È bastato che non si riuscisse a formare il governo in Grecia e la conseguente probabile uscita di questo paese dall'Euro, per mandare a monte tutto il lavoro rappresentato dai tagli alle spese effettuati in questi mesi.
I mercati sono umorali. Basta una paura a scatenare la speculazione sui paesi ritenuti più deboli e tutta la spending review di questo mondo non basterà a tirare fuori l'Italia da questa situazione.
Il premier lo sa, ma mentre il mondo sussurrava all'orecchio dell'Italia la parola "crescita" il professor Monti metteva avanti in agenda politica la nomina di Enrico Bondi a commissario per la revisione della spesa.
Oramai però non si può più indugiare. Il turno della crescita è arrivato e ci si divide su quali siano le ricette da adottare. Come al solito si fronteggiano quelli che interverrebbero in favore delle famiglie per accelerarne i consumi con quelli che sgraverebbero le imprese in cambio di una crescita di investimenti e occupazione.
Aldilà di una possibile iniezione di liquidità, che oggi non potrebbe che essere modesta, sarebbe importante continuare con più decisione sulla strada delle riforme strutturali.
La prima e fondamentale riforma dovrebbe riguardare il mercato del lavoro e su questa esigenza sono tutti d'accordo salvo poi dividersi sulle strade da prendere.
La rivisitazione dell'art. 18 appare ineluttabile ma si tratta di materia delicata e fonte di un possibile scontro sociale, d'altronde la semplice abolizione di quest'articolo dello Statuto dei Lavoratori potrebbe provocare ulteriori incertezze nell'orizzonte futuro delle famiglie deprimendone ancora di più la propensione alla spesa e quindi soffocando nella culla ogni accenno di crescita.
Diciamo subito che l'art. 18 è una norma vecchia che non risponde più all'esigenza dei tempi e che le difese appassionate che riceve non sono delle più disinteressate.
L'art. 18 è un efficace copertura infatti soltanto della metà dei lavoratori italiani, la metà più sindacalizzata, e quindi si capisce perché CGIL, CISL e UIL siano da tempo sulle barricate, dato che le confederazioni sono da sempre più interessate alla sorte di lavoratori stabili e loro iscritti più che a quella di tutti coloro, tantissimi e quasi tutti giovani, che alle tutele dell'art. 18 non riescono ad arrivare.
Bisogna comunque aggiungere che questa riforma non si potrà accettare se non nel quadro di una riforma complessiva del mercato del lavoro che non consegni tutti i lavoratori, e non solo il 50% all'assoluta precarietà.
I giuslavoristi più autorevoli hanno speso fiumi di pagine per descrivere quel regime di job property che contraddistingue l'attuale stato delle cose per quanti beneficiano del paracadute dell'art. 18: dal calo della produttività dovuta all'interiorizzata sicurezza che nessuno potrà toccare il posto di lavoro, fino ai frequenti fenomeni di vera e propria frode in cui si arriva ad approfittare fraudolentemente di ogni diritto, sia esso l'assenza retribuita per malattia propria o del figlio oppure ancora l'istituto del permesso sindacale messo di recente sotto la lente d'ingrandimento dalla Corte dei Conti.
Per non parlare poi dei costi che un azienda in Italia deve affrontare per cacciare un lavoratore tutelato che non faccia il proprio dovere, un fardello che può anche mettere a repentaglio la salute di un'azienda medio piccola, un peso che si misura nella durata abnorme dei processi davanti ai giudici del lavoro, che non ha pari in Europa e che indubbiamente ha il suo peso sulla crescita, sulla convenienza degli investimenti e sul fatto che l'Italia possa ancora considerarsi un paese manifatturiero.
Ma se ci si può convincere della necessità del superamento dell'art.18 in cambio di una tutela minore ma estesa a tutta la platea dei lavoratori, occorrerà anche parlare dei paracadute da mettere in campo e a mio avviso su quest'argomento non si potrà non guardare all'esempio dei paesi dell'Europa settentrionale.
Una riforma complessiva degli ammortizzatori sociali che permetta a tutti di guardare con maggiore serenità alla perdita dell'impiego e che dia concrete possibilità di immediato ricollocamento sul mercato del lavoro. In concreto, per fare l'esempio di quello che accade in altri paesi, essere riconvertiti a nuove possibilità di impiego dalla stessa azienda che ti sta licenziando attraverso percorsi formativi idonei alle esigenze del mercato percependo l'intero salario.
Terminato il rapporto con l'impresa il lavoratore dovrebbe trovare adeguati servizi pubblici per l'impiego e continuare a percepire sussidi di disoccupazione in cambio di formazione e disponibilità a prestare lavori occasionali compatibili con il proprio curriculum.
"E qui casca l'asino", direte. Le agenzie pubbliche per l'impiego sono uno dei buchi neri peggiori dell'apparato statale e le iniziative formative ad ogni latitudine sono solo mascherate occasioni di clientelismo, oppure quando va bene, ammortizzatore sociale in aree depresse.
Occorre dunque inserire nel pacchetto crescita una coraggiosa riforma del pubblico impiego che leghi i premi e le retribuzioni dei dirigenti ai risultati che ottengono. Occorre cancellare tutti quegli enti pubblici inutili e le cui funzioni possono essere affidate ad altri, ridistribuendo gli impiegati nei settori in cui c'è più bisogno come ad esempio nei Tribunali, gli Ispettorati del Lavoro e, per l'appunto, le Agenzie per l'Impiego.
Tornando all'art. 18 non pare che possa esserci un taglio secco e immediato. Nella situazione attuale levare l'art.18 a chi già ce l'ha servirebbe soltanto a gettare nello sconforto milioni di famiglie che, già allontanate dalla prospettiva della pensione, vedono nella stabilità del lavoro dei padri un lenitivo alla disoccupazione e al precariato dei figli.
Via libera dunque alla cancellazione dell'art. 18 d'ora in poi, per quanti non hanno mai avuto questa tutela e chissà dopo quanti anni di precariato senza diritti l'avrebbero vista. Questo in cambio di una tutela tangibile sin dal primo giorno di lavoro per tutti.
Questo, unito allo snellimento del processo in materia di lavoro, garantirebbe un ritorno di investimenti in Italia e un superamento del ristagno dell'occupazione.
Una simile misura non può essere presa senza un ampio confronto tra tutte le parti sociali perché di molte cose bisogna discutere. Ad esempio dei limiti del concetto di licenziamento economico. Quando possiamo parlare di licenziamento economico?
Possiamo considerare un licenziamento "economico" già quando la presenza di un lavoratore in più comporta un mancato profitto supplementare?Oppure per esserci licenziamento ci deve essere un bilancio negativo? E' tollerabile il licenziamento nell'azienda che distribuisce utili ai suoi azionisti oppure paga premi milionari ai suoi manager, magari a prescindere dai risultati di gestione?
Interrogativi su cui bisogna discutere seriamente prima di addivenire ad una decisione gravida di conseguenze quale la cancellazione dell'art. 18. Interrogativi che però non troverebbero ostacoli insormontabili se di pari passo fosse assicurata una copertura di welfare adeguata e una formazione efficace per chi perde il posto di lavoro.
Andrebbe poi affrontata, sempre con riguardo al mercato del lavoro, la questione femminile. Una riforma del lavoro non può prescindere da un riequilibrio delle responsabilità di genere all'interno della famiglia. Questo perché un paese che vuole crescere non può permettersi di lasciare le donne, che più degli uomini raggiungono i livelli di scolarizzazione più alti, a casa perché vincolate alle responsabilità di madre.
Lanciata nel mercato del lavoro la donna non dovrebbe avere l'handicap di dovere sostenere da sola l'educazione dei figli, perché questo la rende più fragile nei rapporti lavorativi, vittima predestinata degli aggiustamenti aziendali. Occorrerebbe quindi mettere mano alle leggi che regolano le assenze causate dalla maternità per spalmarle equamente tra i due genitori e mettere in condizione ogni famiglia di poter mandare il proprio figlio al nido senza affidarsi a costose e non sempre efficienti mani private.
Questo consentirebbe a molte famiglie di potere cogliere l'opportunità di un secondo reddito, quello che fa la differenza tra l'essere poveri e non esserlo, tra l'essere espulsi da ogni possibilità di consumo che non sia di sussistenza e l'essere in grado di uscire la sera per una pizza tutti insieme.
Sarebbe inoltre indispensabile una seria politica di crescita rivolta al meridione. La politica dettata dalla Lega negli ultimi anni era incentrata sul concetto che le risorse andavano concentrate nella parte più produttiva del paese per garantire un ritorno in termini di PIL. Ma che ritorno possono dare investimenti fatti in un contesto già maturo, già proiettato ai massimi livelli di produttività?
Non è forse meglio investire in quella parte del paese, più giovane tra l'altro, che vanta i maggiori margini di miglioramento? Va da se che mai si dovrebbero riutilizzare i vecchi metodi fatti di mero assistenzialismo, di denaro distribuito solo per lenire la disoccupazione o per ingrassare appalti in odore di mafia.
Si pensi ai margini di crescita di regioni le cui province sono ancora collegate da statali che paiono mulattiere, da ferrovie ancora a binario unico, autostrade ancora a due sole corsie. A sud il maggiore aereoporto è quello di Napoli, con gli aerei che atterrando sfiorano i palazzi dei quartieri popolari intorno. Il dibattito sullo sviluppo meridionale è ancora fermo al ponte di Messina, alla solita cattedrale nel deserto.
Ecco quindi, l'energia per la crescita non può venire che da coloro che questo paese finora non ha mai visto: i lavoratori senza diritti, le donne e il sud.