Scienza e diritto. Scienza e processo penale
di Federica Federici
Il rapporto tra scienza e diritto da sempre ha affascinato ed affannato studiosi ed esperti.
Da un lato la certezza, l'operatività del sapere scientifico, dall'altro l'indeterminatezza del sapere e delle scienze giuridiche e sociali.
Tra punti di convergenza e punti di divergenza la scienza è stata definita un "cavallo di Troia nella fortezza del diritto".
Alla base delle divergenze vi è sicuramente la metodologia e l'epistemologia, che evidenzia la natura ed i limiti delle conoscenze scientifiche e che, nel processo penale, in particolare, allontana spesso la verità dal sapere, rendendo la regola bard (beyond any reasonable doubt) una utopia e alimentando rischi di acrisie scientifiche nella ricostruzione ed accertamento degli eventi fattuali ed evidenziando - frequentemente - una carenza di legalità nella formazione delle prove.
Il progresso tecnologico e scientifico spasmodico, continuo e massiccio non ha certo facilitato l'avvicinamento tra le due discipline, così come le nuove tipologie di prove e la digital evidence, che hanno imposto al giudice problemi metodologici nella valutazione delle operazioni peritali, dei parametri di qualità nella loro acquisizione ed ammissione e nella verifica della inferenza coi fatti.
La specificità delle prove, la psicologia cognitiva e dei comportamenti, il valore del DNA nella identificazione, il documento informatico e tanti altri strumenti oggi chiedono agli operatori del diritto una nuova sensibilità verso l'analisi del nesso causale - e non solo.
Queste considerazioni potrebbero far pensare al processo penale come ad un laboratorio di lavori in corso permanente, dove l'integrazione dei saperi è inconciliabile e non integrabile, operando la scienza per leggi generali, il diritto come risposta al caso singolo.
In realtà - come in questo momento storico - scienza e diritto hanno mostrato la loro debolezza e fallibilità e sono entrambi concetti mutati, tecnicamente la prima, storicamente e socialmente il secondo. Ma - come sosteneva Ferrua - "mentre la prima corregge presto o tardi i propri errori, i fatti, non correttamente accertati nel processo, sono quasi sempre irrimediabilmente persi" (1).
Che l'errore giudiziario abbia conseguenze pressoché impossibili da correggere e riparare è evidente, per questo il diritto dovrebbe (deve?) sfruttare tutti gli strumenti e tecniche delle neuroscienze cognitive per confermare o confutare il suo debole sapere.
Il DNA, gli esami biologici, le analisi chimiche e tossicologiche, gli esami psicologici, gli studi epidemiologici, le sperimentazioni sugli animali, i calcoli statistici e biostatistici, le ricostruzioni mediante computer, la genetica, la patologia forense, etc., tutte prove scientifiche che possono portare ad una controllabilità globale dei risultati.
A sua volta la fallibilità della scienza, ormai nota e reale, nel portare a tesi divergenti o non uniformi necessiterebbe (necessita?) di una regolazione normativa della tesi da privilegiare, e può farlo solo con un intervento giuridico.
Questo è il concetto della co-produzione (co-production) tra scienza e diritto tematizzato (2), così che il diritto utilizza e modifica le scienze stabilendo, di volta in volta e con libertà, quale sia la scienza legalmente rilevante e quali esperti siano credibili nell'interpretazione dei dati scientifici (3).
Non dimentichiamoci l'insegnamento popperiano della falsificabilità (non la verificabilità) come tratto caratteristico delle teorie scientifiche sul concetto einsteniano del "nessuna sperimentazione può dimostrare che io abbia ragione; un singolo esperimento può dimostrare che io ho torto": evento previsto da Huxley: "la grande tragedia della scienza è il massacro di una bella ipotesi da parte di un brutto dato di fatto" (4).
La falsificabilità inverte la direzione della indagine sia in campo scientifico che giuridico e rende l'esperto quel collante tra sapere scientifico ed organo giudicante, anche se presenta il rischio di rendere il secondo assoggettato al primo. Lo stesso Fiandaca ha osservato come "il frequente ricorso agli esperti nei processi su fatti complessi, per altro verso, rischia di porre i giudici in una condizione di sostanziale subalternità […]. Il servitore del giudice sta forse diventando il suo segreto padrone" (5).
Vien da sé come un approccio interdisciplinare si renda necessario ancora prima dell'accertamento processuale disgiunto dalla mera funzione probatoria - e costituisca un riflesso della complessità scientifica che caratterizza le categorie sostanziali che vengono in rilievo.
Che questa deriva produca in-giustizia ed accanimento, in una discutibile e velleitaria oscillazione e circolarità - non oggettiva né scientifica - tra condanna ed assoluzione, tanto ampia quanto debole e labile, sempre più affidata non a protocolli e regole, non alla certezza del più probabile che non, dell'oltre ogni ragionevole dubbio, ma abbandonata - se non proprio ad una ghigliottina - ad un croupier dove l'unico a non perdere mai è il banco.
In realtà la verità è un problema sempre aperto.
Dalle teorie scientifiche che partono come congetture occorre arrivare ad accertare la verità, scoprendo e controllando la realtà.
Perché occorre adottare criteri anche nella verità e nella sua ricerca. Un processo scientifico deve essere capace di arrivare alla verità, senza pretendere di possederla, men che mai stabilmente o dall'inizio.
Ogni errore giudiziario, ma ancor prima ogni processo indiziario che uccide lentamente l'imputato, è una tragedia senza fine, una strage di innocenti, un fallimento universale.
Ma anche l'imputato colpevole, nell'accertamento della sua colpevolezza, che di certo non si vuole qui ignorare o scartare come ipotesi, è privato della più umana misericordia, grazia, comprensione, pietas, viene privato della speranza nella redenzione, della consapevolezza che si può sbagliare, senza cadere necessariamente nel tritacarne mediatico e restare nella memoria popolare come il "mostro".
"La nostra conoscenza si accresce nella misura in cui impariamo dagli errori" sosteneva Popper. Quando il sistema si ammala - e il nostro processo oggi è malato! - bisogna curarlo, ma bisogna curarlo con approccio organico ed olistico, in tutti i suoi ingranaggi ed organi, quelli fragili, agonizzanti, fallaci, deformati, viziati, distorti, virulenti.
Il giudice deve diventare perciò il "certificatore" della scientificità dell'ipotesi accolta nella decisione e solo il percorso scientifico gli consente di arrivare al comune obiettivo della "giustizia giusta" (6).
(1) P. Ferrua, Epistemologia scientifica ed epistemologia giudiziaria, in (a cura di) L. De Cataldo Neuburger, La prova scientifica nel processo penale, Padova, CEDAM, 2007.
(2) In particolare si vedano i lavori di Sheila Jasanoff, secondo la quale scienza e diritto sono sistemi che si sistematizzano a vicenda in uno scenario di elicitazione, sedimentazione e stratificazione di significati.
(3) In scienza e processo penale: linee guida per l'acquisizione della prova scientifica, a cura di de Cataldo Neuburger, CEDAM, 2010.
(4) In Il cAos Management, 27/2/2005, VACCA R., 14 teoremi di Karl Popper o Einstein e l'ameba.
(5) FIANDACA G, Il giudice di fronte alle controversie tecnico-scientifiche. Il diritto e il processo penale, diritto 6 questioni pubbliche, 5/2005.
(6) FRANCIONE G., La tavola delle prove legali, Herald Editore, NEU, 2021.
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