Cassazione Sezione Lavoro
Sentenza 5 febbraio 2003 n. 1693
(Presidente E. Mercurio - Relatore U. Morcavallo)
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il 18 luglio 1996, L. G.,
esponendo che la (omissis) gli aveva liquidato il t.f.r. senza tenere conto
dell'incidenza del premio aziendale di anzianità, chiedeva al Pretore di
Torino, in funzione di giudice del lavoro, di condannare la predetta società a
pagargli la relativa differenza, oltre interessi e rivalutazione.
Costituitasi in giudizio, la (omissis) contestava la
fondatezza della pretesa negando che il premio in oggetto avesse le
caratteristiche richieste dall'art. 2120 cod. civ. ai fini dell'inclusione nel
t.f.r.
Con sentenza del 27 febbraio 1997 il Pretore
respingeva la domanda compensando le spese di lite.
La decisione veniva riformata in sede di gravame dal
Tribunale della stessa città, che, con sentenza del 13 luglio 1999, condannava
la (omissis) al pagamento della domandata differenza.
In particolare, i giudici di appello, premessa la
ricostruzione storica del premio aziendale a partire dall'ultimo dopoguerra ed
evidenziato che nell'aprile 1974 detto premio era stato commisurato ad una
mensilità di retribuzione globale di fatto, con specifica menzione nel foglio
paga, assoggettamento a IRPEF e contribuzione previdenziale, con estensione al
personale operaio che avesse maturato almeno ventiquattro anni e sei mesi di
servizio, ne affermava l'integrale inserzione nel t.f.r., in ragione della
natura retributiva (avvalorata da una reiterazione pluridecennale che, dando
luogo ad un uso aziendale, aveva comportato la obbligatorietà della
corresponsione) e della non occasionalità (trattandosi di una erogazione
inerente al protrarsi del servizio e di periodicità quinquennale, quindi non
eventuale, imprevedibile e fortuita rispetto al normale svolgimento del
rapporto).
Per la cassazione di tale decisione ricorre la
società deducendo un unico motivo di impugnazione.
L'intimato resiste con controricorso.
Motivi della decisione
Con l'unico motivo di ricorso, denunciando erronea
omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia e
violazione e falsa applicazione dell'art. 2120 cod. civ., nonché violazione
dell'art. 770 cod. civ., la società ricorrente lamenta che il Tribunale, dopo
avere correttamente individuato le caratteristiche oggettive del premio, ne
trascuri gli aspetti giuridici prevalenti (determinatezza, obbligatorietà,
corrispettività). Deduce, in particolare, che il premio di fedeltà, introdotto
secondo una regolamentazione unilaterale dell'azienda, trova causa in un mero
atto di liberalità del datore di lavoro, che ne ha materialmente connesso
l'erogazione ad un elemento oggettivo (la prosecuzione nel tempo) non collegato
al contratto ed alla prestazione lavorativa, del quale (diversamente dagli
scatti di anzianità) il premio non costituisce un corrispettivo. Quanto al
requisito della non occasionalità, lamenta che il Tribunale, dopo avere
correttamente escluso la rilevanza della frequenza temporale della erogazione,
abbia trascurato ogni indagine circa il profilo causale dell'attribuzione ed il
normale suo collegamento (nella specie insussistente) con la vicenda
retributiva del rapporto, finendo erroneamente per riconoscere alla mera
protrazione nel tempo della erogazione l'effetto di una trasformazione
dell'intrinseca natura liberale del negozio, sempre ribadita dall'azienda,
senza considerare la piena compatibilità dell'uso aziendale, nella
corresponsione del premio, con la predetta natura liberale di questo.
Il motivo non è fondato.
I giudici di merito hanno riconosciuto la natura
retributiva del premio perché, se pure sorto inizialmente come espressione di
volontà datoriale meramente liberale, esso ha acquistato nei decenni successivi
carattere di obbligatorietà, trasformandosi in un uso contrattuale, in quanto
costantemente corrisposto dal datore di lavoro, che l'ha messo in relazione
alla mera circostanza della prestazione lavorativa durata un certo tempo
predefinito e l'ha esteso indiscriminatamente e senza interruzione a tutti i
dipendenti, o ad una data categoria di essi, in base a criteri omogenei e
obiettivi, conformi, da ultimo, allo stipendio mensile percepito.
A questa analisi la ricorrente oppone la
considerazione di una, esclusiva e unilaterale volontà datoriale, offerta per
gratificazione e tangibile vantaggio economico del lavoratore, in ragione della
sua pluriennale fedeltà.
La tesi appare contrastata anzitutto dalla
circostanza che la stessa società ha ritenuto espressamente l'assoggettabilità
contributiva e fiscale della erogazione in esame (cfr. sentenza impugnata, pag.
5, e, per l'aspetto imponibile, Cass. n. 10473 del 2000, n. 248 del 1999);
inoltre, a parte che la fedeltà costituisce uno dei naturalia negotii (arg.
ex art. 2105 cod. civ.), non pare corretto accentuare solo in funzione
dell'interesse premiale dell'imprenditore il riconoscimento dell'incentivo, per
farne discendere l'estraneità rispetto alla prestazione lavorativa, come
neppure è valido negarne il valore di non occasionalità, trattandosi, secondo
l'accertamento compiuto dal Tribunale, di un corrispettivo che, predeterminato
nel suo contenuto economico (corrispondente ad una mensilità di stipendio) e
stabilizzato nel tempo, risulta collegato al rapporto di lavoro attraverso
l'anzianità di servizio, che è appunto un fatto obiettivo nello svolgimento di
tale rapporto (cfr. Cass. n. 10150 del 2000 e n. 3719 del 1997, che hanno riconosciuto
l'incidenza dei periodi di aspettativa sindacale ai fini della maturazione del
trattamento premiale).
D'altra parte, le conclusioni dei giudici di merito
appaiono conformi al consolidato principio secondo cui la corresponsione di un
compenso durante il corso del rapporto di lavoro è sufficiente a farlo
considerare un elemento della retribuzione, sia per la presunzione di onerosità
che assiste tutte le prestazioni eseguite durante l'attività lavorativa, sia
per la considerazione che un'elargizione liberale da parte dell'imprenditore
può giustificarsi solo se accidentale e collegata ad eventi eccezionali, con la
conseguenza che le erogazioni del datore di lavoro, quando non siano imposte
dalla legge, dal contratto collettivo o da pattuizioni individuali,
indipendentemente dalla loro denominazione, debbono considerarsi come facenti
parte della retribuzione, se assumano i caratteri di predeterminata stabilità e
di coerente continuità, estendendosi alla generalità dei dipendenti (cfr. la
già citata giurisprudenza in materia di imponibilità).
Non si può, quindi, a questo proposito, non
conformarsi a quell'indirizzo giurisprudenziale secondo cui l'originaria
spontaneità del premio si è trasformata, per effetto dell'inequivoco
comportamento delle parti, consistente nell'attribuzione della erogazione da
parte del datore di lavoro in occasione della maturazione di un servizio
pluriannuale prestabilito e nella corrispettiva legittima attesa dei lavoratori
a conseguirla, in un vincolo obbligatorio, sì che il premio perdendo
l'originaria natura di liberalità, è infine divenuto un corrispettivo per la
fedeltà della prestazione resa per un certo numero di anni: corrispettivo che
ha assunto, per effetto del gradimento dei dipendenti, natura di compenso
riconosciuto dall'uso aziendale, inserito, come tale, nel contratto di lavoro,
di cui completa il contenuto in senso modificativo o derogativo (in melius)
della contrattazione collettiva (cfr. Cass. Sez. Un. n. 8573 del 1990).
Tali considerazioni, d'altra parte, questa Corte ha
già espresso, in analoga controversia, con la recente sentenza n. 11607 del
2002, le cui conclusioni devono perciò essere ribadite in questa sede.
Il ricorso va quindi rigettato.
La società ricorrente è tenuta alla rifusione delle
spese di giudizio, ai sensi dell'art. 385, primo comma, cod. proc. civ., con
liquidazione come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società
ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in euro 31,00, oltre
euro duemilacinquecento per onorari.