Il rifiuto dei rapporti sessuali e l'addebito della separazione
Il secondo comma dell'art. 151 c.c. statuisce che il giudice, pronunziando la separazione, ove ne ricorrano le circostanze e venga richiesto, dichiara "a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio".
Presupposto dell'addebito, la cui valutazione va effettuata sulla base del complessivo comportamento dei coniugi nello svolgimento del rapporto coniugale e i cui effetti rilevano in sede di diritto al mantenimento e successorio, è, dunque, l'intollerabilità della convivenza causata dalla violazione, da parte di uno dei due coniugi, degli obblighi e dei doveri nascenti dal matrimonio (Cass. n. 6621/1994).
Rientrano, pertanto, tra i fatti costitutivi dell'addebito, le violazioni delle situazioni giuridiche garantite, pariteticamente, ad entrambi i coniugi dalle norme codicistiche (artt. 143-147 c.c.) e alla persona umana in quanto tale dai precetti costituzionali. Possono comportare addebitabilità della separazione, quindi: le condotte che ostacolino l'altro coniuge nello svolgimento della sua personalità e nell'esercizio dei diritti costituzionalmente garantiti (libertà religiosa, lavoro, libertà di pensiero; ecc.); la violazione del dovere di collaborazione e di assistenza morale; la violazione degli obblighi di coabitazione, di contribuzione e di fedeltà (esteso non solo alla presenza di relazioni sessuali extraconiugali, ma anche ai casi c.d. di "infedeltà apparente", "relazione platonica", "tentativo di tradimento", quali comportamenti in grado di ledere la sensibilità e la dignità del coniuge); la violazione dell'obbligo di assistenza e collaborazione, nel quale possono ascriversi sia i comportamenti rilevanti come illeciti penali (sevizie, minacce, ingiurie) che gli atteggiamenti che comportano offesa della personalità del coniuge, come la mancanza di lealtà o il mancato rispetto del riserbo sulle vicende coniugali; l'impedimento all'esercizio dei rapporti con la famiglia di origine, nonché la mancanza di rapporti sessuali determinata da ingiustificati rifiuti o intolleranza.
La sfera intima: i matrimoni "bianchi"
È da diverso tempo che le problematiche inerenti la sfera più intima della vita di coppia hanno fatto il loro ingresso in giurisprudenza. I giudici hanno affrontato molte volte la questione dei c.d. "matrimoni bianchi", affermando che se la "sedatio concupiscentiae" non è l'unico scopo del matrimonio, in capo ai coniugi sussiste un vero e proprio diritto-dovere per ciò che concerne i rapporti sessuali, equiparabile agli altri diritti e doveri discendenti dal contratto matrimoniale.
Pertanto, la mancanza di un'intesa sessuale "serena ed appagante", come anche il mancato accordo tra i coniugi sui rapporti, sulla tipologia e sulla frequenza degli stessi, legittima, inficiando la comunione materiale e spirituale tra gli interessati, la domanda di separazione, in quanto, ove debitamente comprovato, costituisce elemento che prova la carenza di legami tra i coniugi e l'intollerabilità della convivenza (Cass. n. 8773/2012; n. 17056/2007), potendo anche costituire causa di addebito, laddove sussista una "colpa" da parte di uno dei due coniugi che preclude all'altro la possibilità di soddisfare i propri bisogni sessuali, opponendo un ingiustificato e persistente rifiuto ad intrattenere rapporti e violando così uno degli obblighi di assistenza morale previsti dal matrimonio.
Il rifiuto di rapporti sessuali
L'astensione dai rapporti sessuali tra coniugi diventa rilevante quando è espressione di un totale rifiuto, disinteresse o addirittura di "repulsione" di un partner nei confronti dell'altro, costituendo chiaro sintomo della mancanza di comunione di affetti e potendo dar luogo all'addebito della separazione, in quanto espressa violazione delle obbligazioni derivanti dal matrimonio.
Secondo l'orientamento maggioritario e recente della giurisprudenza, infatti, "il persistente rifiuto di intrattenere rapporti affettivi e sessuali con il coniuge - poiché, provocando oggettivamente frustrazione e disagio e, non di rado, irreversibili danni sul piano dell'equilibrio psicofisico, costituisce gravissima offesa alla dignità e alla personalità del partner - configura e integra violazione dell'inderogabile dovere di assistenza morale sancito dall'articolo 143 cod. civ., che ricomprende tutti gli aspetti di sostegno nei quali si estrinseca il concetto di comunione coniugale" (Cass. n. 19112/2012).
Il rifiuto di condurre una normale e sana vita sessuale per dare luogo ad un'offesa alla dignità della persona, comportando pregiudizi sul piano personale e psicologico, deve essere protratto nel tempo ed ingiustificato. È ovvio che in presenza di impedimenti (come, ad esempio, nell'ipotesi di una malattia o di un motivo di indisposizione del coniuge) non potrà discendere alcun addebito della separazione.
Deve, inoltre, esserci un nesso eziologico tra il rifiuto dei rapporti sessuali e il fallimento della vita coniugale: in altre parole, l'ingiustificata negazione di una normale vita sessuale deve essere il motivo che ha determinato l'intollerabilità della convivenza e dunque la separazione. Non può, infatti, ritenersi presente un nesso causale quando la negazione dei rapporti sessuali è conseguenza di altri motivi che hanno comportato la fine della vita matrimoniale, mentre, invece, integra violazione di norme di condotta imperative, poiché lesivo di beni e diritti fondamentali della persona, non potendo neppure essere oggetto di giudizio di comparazione, il rifiuto di rapporti sessuali utilizzato quale mezzo di punizione o ritorsione nei confronti dell'altro coniuge per un comportamento dallo stesso posto in essere (Cass. n. 15101/2004).
In tal caso, si è in presenza di un atto volontario che sfugge "ad ogni giudizio di comparazione, non potendo in alcun modo essere giustificato come reazione o ritorsione nei confronti del partner e - che - legittima pienamente l'addebitamento della separazione, in quanto rende impossibile al coniuge il soddisfacimento delle proprie esigenze affettive e sessuali e impedisce l'esplicarsi della comunione di vita nel suo profondo significato" (Cass. n. 6276/2005).