Il decoro professionale
Quando si parla di "decoro professionale" in ambito forense si è soliti fare riferimento a una dimensione “esterna”, al modo in cui ci si mostra attraverso l’abito o l’uso della toga. Per dirla in altri termini all'apparenza. E il codice deontologico forense ha una posizione non trascurabile nel campo in questione. Ciò che dovremmo chiederci però è fino a che punto la forma, l’aspetto esteriore, l’abito, riescono realmente ad aderisce alla dimensione interna di una persona.
E’ vero, l’avvocato sostiene un compito delicatissimo nel momento in cui si occupa della tutela dei diritti e questo compito richiede decoro e rispetto di quell’insieme di regole comportamentali che costituiscono il cosiddetto "codice etico”.
Un termine che rimanda in modo inesorabile all'antica e complessa problematica della morale, ovvero dell'esistenza, o meno, di principi universali ai quali dovrebbero ispirarsi le azioni dell'uomo. "Codice etico" è un termine che prende il suo valore specifico nella contemporaneità, proprio quando, parallelamente all'indebolimento dei cosiddetti "pensieri forti" tradizionali (le ideologie politiche, filosofiche e religiose che dettavano in modo rigido le norme della convivenza sociale), si assiste alla crescente domanda di regole di deontologia capaci di determinare i limiti e le condizioni della prassi umana in particolari contesti.
Si è sempre detto che l’Avvocato, a ragione del suo particolare ruolo sociale, è tenuto a rispettare un determinato codice comportamentale rappresentato anche in termini estetici il cui scopo è quello di impedire di ledere la dignità della categoria di appartenenza.
In base ai principi di deontologia fini e mezzi sono strettamente correlati, il che significa che un fine giusto deve essere il risultato dell'utilizzo di giusti mezzi. E uno dei “giusti mezzi” è considerato appunto il decoro professionale. Ma siamo sicuri che il decoro si manifesti solo attraverso l’aspetto esterno? O non dovremmo piuttosto pensare che il decoro è in primo luogo il modo di essere e di comportarsi?
In genere si ritiene che l’abito che si indossa non è un inutile orpello, ma un completamento del proprio essere, la giusta veste di come ci si dovrebbe porre verso una determinata situazione.
Ma le cose non stanno sempre così e l’esperienza di tutti i giorni ce lo insegna. Quante volte ci siamo imbattiti in persone che sotto la maschera di un vestito elegante nascondono un modus operandi addirittura contrario all’immagine che vogliono trasmettere?
Anticamente, in filosofia, il termine apparenza stava ad indicare un riferimento all'opinione, alla percezione sensibile di un fenomeno, ritenendo ambedue i termini significanti incertezza nell'acquisizione di una verità presupposta invece che come assoluta. Incertezza e verità supposta quindi. Per questo motivo il termine apparenza veniva spesso inteso in contrapposizione a verità o realtà.
Per Parmenide, l'autore del poema “Sulla natura o sul non essere” tutto il mondo sensibile è apparenza, paragonabile al non essere, e soltanto il filosofo è in grado di raggiungere l'unica vera realtà dell'essere nascosto e sconosciuto al volgo.
Restando ad epoche remote possiamo notare come il termine "deontologia" deriva dal greco "deon" che significa "dovere" e il più famoso deontologo è probabilmente stato, Immanuel Kant (1724 - 1804) il cui obiettivo nella formulazione della deontologia era quello di stabilire un sistema etico che non dipendesse dall'esperienza soggettiva ma da una logica inconfutabile. Secondo il filosofo, la correttezza etica di un comportamento sarebbe un dovere assoluto e innegabile, alla stessa maniera in cui nessuno potrebbe negare che due sommato a due è uguale a quattro.
Arthur Schopenhauer, feroce critico di Immanuel Kant, dal suo canto, nel saggio “Il fondamento della morale”, accusa Kant di riproporre sotto altre parole la morale teologica che, per evitare contestazioni, "con un minaccioso appello alla coscienza di chi dissente pretende di far tacere ogni dubbio" . Per Schopenhauer l'imperativo categorico di Kant altro non era che una vera e propria contradictio in adiecto poichè il concetto di dovere ha senso solo in relazione alla promessa di un premio o di una minaccia o castigo non quindi ad una pura e coerente volontà. Stando così, un imperativo può essere, per dirla alla maniera di Kant, soltanto ipotetico (condizionato ad un premio o ad una minaccia) e mai categorico (incondizionato). Ma erano altri tempi. Oggi l’apparire ha preso il sopravvento anche sulla contraddizione. Ne abbiamo continue conferme dai mass media e dalla società in cui viviamo che ne è la copia. Oggi si vive nel culto dell’apparire a discapito dell’Essere. Il mondo interno, il contenuto, il decoro dell’anima, sembrano essere scivolati in fondo alla classifica di gradimento.
Un vestito elegante e costoso, una cravatta ordinata stretta al collo hanno dunque sostituito il decoro interiore trasformandosi inevitabilmente in degli specchi per le allodole.
Per usare un termine evangelico si potrebbe dire che spesso ci si trova di fronte a "sepolcri imbiancati" che appaiono “belli di fuori, ma dentro sono pieni di ossa di morti e d´ogni immondizia”.
La nostra è sicuramente una società dove l’apparire è diventato di gran lunga più importante dell’Essere; sistematicamente sedotti dal mondo dell’immagine, siamo capaci solo di giudicare attraverso la vista, e non riusciamo più ad avvertire quelle sensazioni che il nostro istinto a volte ci suggerisce. In questo modo diamo fiducia alla forma, all’esteriorità e sempre meno a ciò che i nostri occhi non possono cogliere, a un sentire che fin troppo spesso viene ingannato da una cordiale, quanto superficiale stretta di mano.
La nostra mente è così assuefatta agli inganni che diventa sempre più difficile smascherarli.
Viviamo nell’epoca del maquillage, dell’apparenza. Qualcosa che ha origini molto antiche, se pensiamo che il maquillage risale addirittura agli Egizi. Ma l'epoca in cui questa pratica ha avuto il suo massimo splendore e in cui aveva proprio lo scopo di nascondere la realtà dietro l'apparenza, è forse l'epoca dell'apparenza per antonomasia: la Victorian Age.
Chi più del Dorian Gray di Oscar Wilde si è preoccupato del suo aspetto esteriore in modo da farlo apparire così diverso dal suo io interiore? Forse Freud avrebbe classificato questo caso come l'eccezione in cui, sebbene l'Es ed il Super Io coincidano, l'Io è molto instabile.
Ciò che dovremmo fare, è di imparare a guardare con occhi diversi le persone con cui ci relazioniamo, perché il vero decoro non è dato tanto dall'abito che si indossa quanto dal modo in cui si agisce, ci si comporta, dalla correttezza delle iniziative professionali e sociali, dalla preparazione e dall'impegno che si si dimostra nello svolgere la propria professione.
Il decoro, è il modo attraverso cui si incanala e si rivela il carattere e l’atteggiamento mentale che si ha nei confronti del proprio ambiente e, in questo specifico caso, nei confronti della propria professione. Dovremmo abbandonare l’idea oggi sempre più diffusa secondo cui l'aspetto è un modo attraverso cui la personalità si manifesta. Un uomo che veste in modo distinto potrebbe essere un criminale mentre un barbone ai margini della strada potrebbe avere una rara bontà d’animo.
Forse la cosa migliore da fare è cambiare il modo di osservare e di considerare il decoro imparando anche a difenderci dai tanti casi di «mimetismo caratteriale».
Ricorderete forse Woody Allen in Zelig. Il Leonard Zelig di Allen è “un uomo che non ha un sé, una personalità, un decoro interiore”, Ma qui, ovviamente, ci si riferisce ad un’ eccezione che non dovrebbe mai sfociare nella regola, un’eccezione che non dovrebbe mai presentarsi nell’individuo che conosce se stesso e il proprio ruolo nel suo ambiente. In Zelig, il soggetto in questione, possedeva una personalità di adattamento camaleontico. E così accade spesso che giacca e cravatta sono soltanto il risultato di un adattamento sociale, formale, un travestimento, se non addirittura, come nel caso di Zelig, un acconciatura psicotica.
Se "puliamo l´esterno del bicchiere" non ci liberiamo di certo dello sporco che c’è dentro. Così se ci accontentiamo di apparire delle “brave persone” pulite e ben vestite rischiamo di dimenticare ciò che è davvero importante, ovvero ciò che alberga nel nostro mondo interno la cui voce rimane troppo spesso inascoltata.
Roberto Cataldi