So bene che a voler parlare di "interesse nazionale" e di "particolarismi
territoriali" ci si addentra in un terreno instabile e che la contraddizione
è implicita nelle stesse definizioni di partenza: da un lato si mira a
salvaguardare "l'universale", dall'altro a rivendicare la propria identità.
E' subito evidente che il contrasto di fondo è insanabile a meno che non si
accetti di pervenire a delle formule di compromesso, che tentino un
bilanciamento fra opposti principi ed esigenze. Dinanzi alle sempre più
incalzanti "correnti autonomistiche", dobbiamo porci una domanda: potrà,
ancora una volta, l'"interesse nazionale" costituire un limite all'autonomia
delle Regioni?
Il titolo V della nostra Costituzione, dedicato a Regioni, Province e
Comuni, è stato oggetto, negli ultimi anni, di vari progetti di riforma, tra
entusiasmi e accese polemiche. A seguito degli sforzi compiuti, a livello
politico, per trovare un compromesso, il testo attualmente in vigore è
quello risultante dalle novelle introdotte con la legge costituzionale del
2001 (in G.U. 12/03/2001, n. 59). Le modifiche apportate consacrano, anche a
livello costituzionale, le tendenze autonomistiche che, finora, erano state
perseguite solo con leggi ordinarie (in particolare attraverso le ormai
famigerate leggi Bassanini) facendo parlare la dottrina di "federalismo a
costituzione invariata". Ma, come ogni formula di compromesso, la riforma ha
inserito nella Carta Costituzionale espressioni (volutamente) ambigue e
clausole fin troppo "generiche" e "pericolose" per la tanto agognata
autonomia delle Regioni italiane; quest'ultima è stata riconosciuta "sulla
carta" fin dall'originario disegno del Costituente del '47 e, tuttavia, in
vario modo ridotta nella prassi costituzionale. Notevoli ambiti di
autonomia, infatti, erano stati attribuiti alle Regioni già con la prima
formulazione della Costituzione repubblicana, ossia nel momento stesso in
cui venivano introdotte al fianco delle Province e Comuni. Mentre questi
ultimi erano realtà ben radicate sul territorio italiano fin dai tempi di
Dante Alighieri, le Regioni vennero introdotte in modo "convenzionale" ossia
senza che a tali nuove articolazioni corrispondessero delle identità ben
delineate dal punto di vista storico-culturale e, ancor meno, delle
strutture idonee a renderle operative "in prima persona". Fu così che le
Regioni italiane, a parte quelle a statuto speciale, sono rimaste un
"fantasma" finchè la legge del '70 (l. n. 281/1970) ha dato vita a quella
"lettera morta". Ma le neonate Regioni non erano ancora dotate di
quell'autonomia politica necessaria per resistere agli "assalti" dello
Stato, pronto a sfruttare abilmente quelle espressioni generiche e formule
ambigue che hanno prestato il fianco a molteplici forzature del dettato
costituzionale.
Tra le ampie clausole di cui il Governo centrale si è servito per spogliare
le Regioni delle competenze che le venivano riconosciute già dal '47,
sicuramente tra le più utilizzate è quella dell'"interesse nazionale". In
base al combinato disposto degli artt. 117 e 127 Cost., secondo la
formulazione precedente rispetto alla riforma del 2001, le leggi regionali
non potevano porsi in contrasto con l'interesse nazionale altrimenti il
Governo della Repubblica avrebbe potuto promuovere la questione di merito
davanti alle Camere. Il suddetto limite, dunque, nel disegno originario del
Costituente, avrebbe dovuto operare in via eventuale e successiva rispetto
all'emanazione della legge regionale. Il Parlamento, però, ha pensato bene
di escogitare uno stratagemma per rendere operante tale limite a priori,
ossia già nel momento della ripartizione delle competenze, attraverso la
tecnica c.d. "del ritaglio". Lo Stato si è "ritagliato", appunto, dei
settori di competenza nell'ambito delle materie elencate nell'art. 117 Cost.
(vecchia formulazione), adducendo che l'interesse nazionale ed esigenze di
unità imponevano una legislazione uniforme su tutto il territorio. E' stato
in base a tali presunte istanze unitarie che lo Stato è andato ben oltre la
mera individuazione di "principi fondamentali" ed è giunto ad emanare Lui
stesso la normativa di dettaglio anche nelle materie che la Costituzione
riservava alla legislazione regionale; si è giunti, addirittura, a
considerare normativa "di principio" la legge statale che, in materia di
caccia, ha prescritto perfino il tipo di cartucce utilizzabili!
Ed è sempre invocando la clausola, tanto elastica quanto ambigua
dell'interesse nazionale che la Corte Costituzionale ha considerato
legittima la sostituzione dello Stato alle Regioni eventualmente
inadempienti rispetto all'obbligo di dare attuazione alla normativa di fonte
statale. Il giudice di legittimità, infatti, dopo aver avallato in più
occasioni tale prassi, ha puntualizzato (sentenza 177/1988) alcune
condizioni che lo Stato deve rispettare per poter esercitare tali poteri
sostitutivi e surrogatori: in primis la Corte precisa che l'inattività della
Regione deve generare il pericolo di una lesione (per l'appunto)
dell'interesse nazionale.
Un altro espediente di cui si è servito il Governo centrale per ridurre
drasticamente gli spazi di autonomia delle Regioni, che venivano
riconosciuti, si badi bene, già nell'assetto costituzionale del '47, è stato
quello di riservare, in capo allo Stato, la cd. "funzione di indirizzo e
coordinamento"; in virtù di tale strumento, poteva invadere le sfere di
competenza che la Costituzione riservava alle Regioni (art. 117 vecchia
formulazione) dettando norme non solo con legge, ma perfino con atti
amministrativi, con ciò realizzando un ulteriore "strappo" alla Carta
fondamentale, che prevede, invece, una riserva di legge in materia di
principi fondamentali cui dovranno uniformarsi le Regioni. Ancora una volta
la Corte Costituzionale ha manifestato il suo atteggiamento tendenzialmente
antiregionalista: in varie sentenze degli anni '70, difatti, ha considerato
la funzione di indirizzo e coordinamento come fondata direttamente in
Costituzione, in particolare nell'art. 5 che sancisce l'unità e
indivisibilità della Repubblica.
E la situazione attuale? La legge costituzionale del 2001 ha riformulato
ovvero abrogato la maggior parte degli articoli che la Carta fondamentale
dedica agli enti territoriali al fine di potenziare l'autonomia di questi
ultimi; ma è stata davvero fatta "piazza pulita" dei trabocchetti e delle
scappatoie attraverso i quali lo Stato, finora, ha violato le prerogative
delle Regioni? E non ne sono stati, per caso, introdotti dei nuovi,
attraverso le formule ambigue che, come già notato, sono tanto care ai
politici per raggiungere soluzioni di compromesso su temi particolarmente
delicati e dibattuti come quello della forma di Stato?
Per provare a rispondere a questi interrogativi, che vanno dritti al cuore
delle prospettive imminenti del nostro Paese, in bilico fra regionalismo e
federalismo, è opportuno, innanzitutto, vedere che fine ha fatto il limite,
tanto calorosamente invocato dallo Stato e dalla Corte Costituzionale,
dell'interesse nazionale. La legge costituzionale del 2001 ha modificato,
fra gli altri, proprio gli artt. 117 e 127 Cost. prevedendo l'obbligo della
legislazione regionale di rispettare la Costituzione, i vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, ma non è più
menzionato l'interesse nazionale; quest'ultimo, dunque, è certamente
scomparso come limite di merito. E', però, davvero sparito del tutto dalla
scena o, piuttosto, non fa ancora capolino sotto le mutate vesti di limite
"di legittimità"?
La dottrina, nei primi commenti successivi alla riforma, da più parti,
ritiene che quella clausola generale è ancora rintracciabile nella nostra
Costituzione e invoca, a tal proposito, diverse norme, alcune vecchie, altre
neointrodotte. Alcuni autori ritengono che l'interesse nazionale sia insito
nei principi di unità e indivisibilità consacrati nell'art. 5 Cost., in nome
dei quali il Governo centrale potrebbe intervenire ogniqualvolta una
normativa disomogenea, tra le varie Regioni, rischierebbe di compromettere
le istanze unitarie. Altra dottrina ritiene che le esigenze di salvaguardia
di interessi ultraregionali sarebbero insite nell'attribuzione della potestà
legislativa in via esclusiva allo Stato in relazione a materie che, per la
loro ampiezza, sono state definite "competenze funzionali". Si fa
riferimento, in particolare alla lettera m) del secondo comma dell'art. 117
(nuova formulazione) inerente alla determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale; si è, dunque, palesata la
necessità di assicurare degli standards minimi di tutela nei settori che
potremmo definire come quelli tipici d'intervento dello Stato sociale di
diritto (o Welfare State per dirla all'inglese).
Altri autori sostengono che il limite di legittimità dell'interesse
nazionale farebbe capolino nel nuovo art. 120, ove, al secondo comma,
prevede che il Governo possa sostituirsi ad organi delle Regioni e degli
enti locali in determinate ipotesi, tra le quali, quelle del "pericolo grave
per la sicurezza e l'incolumità pubblica" ovvero "quando lo richiedono la
tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica". Ecco che, eliminata la
clausola generica dell'interesse nazionale, sono state introdotte
espressioni che sembrano ancor più vaghe e suscettibili di trasformarsi in
altrettanti trampolini di lancio per le "incursioni" dello Stato. Così come
non è stato sufficiente riconoscere autonomia alle Regioni "sulla carta" in
passato, anche oggi sussiste il rischio che il disegno del Costituente sia
svilito da interpretazioni che svuotino completamente le istanze
autonomistiche che si vorrebbero perseguire. Le insidie di cui è disseminato
il nuovo titolo V consistono soprattutto nel rischio, decisamente concreto,
che le formule dell'unità giuridica o economica e le altre che giustificano
l'intervento sostitutivo del Governo vengano interpretate in modo talmente
lato da neutralizzare l'ampliamento delle prerogative regionali. Anche una
lettura in senso troppo estensivo delle materie elencate al nuovo secondo
comma dell'art. 117 Cost., riservate alla competenza esclusiva dello Stato,
avrebbe l'effetto "a cascata" di ridurre gli spazi che residuano per la
competenza delle Regioni (sia quella concorrente che quella, del tutto nuova
per le Regioni a statuto ordinario, esclusiva regionale).
Anche in merito all'esercizio della funzione amministrativa, il riformatore
ha, più o meno consapevolmente, disseminato il terreno di mine che rischiano
di far saltare le conquiste appena raggiunte. Il vecchio art. 118 Cost.
attribuiva la funzione amministrativa alle Regioni, salvi alcuni
temperamenti, in tutte le materie per le quali tali enti territoriali si
vedevano attribuire la competenza legislativa, ossia quelle elencate nel
vecchio art. 117 della Costituzione. In base a tale parallelismo fra le due
funzioni, era presente, nelle Carta fondamentale, un criterio di riparto
delle competenze, in ambito amministrativo, che potremmo definire
tendenzialmente rigido e automatico, quindi, in prima approssimazione,
foriero di una certa garanzia per le Regioni. Nel nuovo art. 118 Cost.,
invece, appare un criterio sicuramente più moderno ma altrettanto elastico e
fumoso: il principio di sussidiarietà. Quest'ultimo, di origine comunitaria
e già recepito dalla nostra legislazione ordinaria, si propone di spostare
le funzioni e i centri di produzione delle norme verso il basso, ossia al
livello delle comunità più vicine ai destinatari delle regole stesse e,
soprattutto, alle esigenze concrete sentite in un dato settore
socio-economico. Il principio della sussidiarietà, tuttavia, accompagnato a
quelli dell'adeguatezza e differenziazione, implica che, qualora la funzione
non possa essere efficacemente realizzata dal livello territoriale
inferiore, essa debba essere attratta dal livello immediatamente superiore,
secondo un percorso che tende a risalire verso l'alto. Ed è proprio qui il
rischio: chi giudicherà come inadeguato l'intervento degli enti territoriali
inferiori? Il livello superiore, e, in ultima istanza, lo Stato stesso! Il
pericolo è quindi che, adducendo più o meno reali inadeguatezze di Regioni e
di enti locali, Il massimo livello attragga a sé buona parte delle
competenze, in modo da far operare il principio di sussidiarietà in senso
diametralmente opposto rispetto a quanto si prefiggerebbe, ossia "verso
l'alto" anziché "verso il basso". Del resto ciò è quanto puntualmente si è
verificato in seno alla stessa comunità europea, ove il principio è stato
elaborato, dato che è fenomeno palmare ed incalzante la tendenza dell'Unione
Europea ad "accaparrarsi" un numero sempre maggiore di competenze, anche in
settori delicati che non si immaginava che gli Stati membri potessero
essere, pressati dal processo d'integrazione europeo, disposti a cedere.
Esiste, in definitiva, un mezzo per arginare, in qualche modo, la potenziale
invasione del "centro" a scapito dei livelli inferiori?
Nelle realtà federali uno strumento esiste: è la Camera degli Stati
federati, che, prendendo parte, in vario modo, alle decisioni dello Stato
centrale, tutela, già a livello legislativo, le prerogative dei livelli
inferiori. Ma in Italia, nonostante le ricorrenti proposte in tal senso, non
esiste una Camera delle Regioni che impedisca iniziative accentratrici o,
comunque, invasive degli ambiti riservati agli enti minori.
Lasciando da parte le proposte de iure condendo, non esiste, attualmente,
neppure un freno a eventuali, ma assolutamente realistiche, invasioni dello
Stato? Almeno un argine, in realtà, è sicuramente previsto: la Corte
Costituzionale. Spetterà a quest'ultima, difatti, l'ultima parola in merito
alla legittimità o meno di leggi statali che dovessero interpretare le già
di per sè numerose materie riservate in via esclusiva allo Stato in modo
talmente lato da provocare le ire delle Regioni, costringendole a ricorrere
all'estremo rimedio del ricorso alla Consulta. Sarà sempre la Corte
Costituzionale che delineerà l'ambito estensivo e i profili operativi dell'
"arma a doppio taglio" che abbiamo visto essere il principio di
sussidiarietà, così come delle pericolose clausole dell'unità giuridica,
dell'unità economica e delle altre formule che ben si prestano a fin troppo
facili "approfittamenti" del Governo centrale.
Quello che ci pare doveroso notare, in conclusione, è che, da un lato, resta
ferma l'esigenza di garantire una certa uniformità in settori delicati quali
quello dei diritti civili e sociali, onde evitare ingiuste sperequazioni sul
territorio nazionale; dall'altro lato, però, non sarebbe rispettosa del
disegno del riformatore costituzionale una prassi che svuotasse
l'ampliamento delle prerogative regionali appena conquistate, attraverso
letture "forzate" e strumentalizzate delle espressioni ambigue e dei criteri
fin troppo elastici che sembrano aver preso il posto del riferimento
all'interesse nazionale (da cui, come abbiamo visto, la nostra Carta
costituzionale è stata appena depurata).
Un atteggiamento della Corte Costituzionale che si ostinasse ad avallare gli
"straripamenti" dello Stato dall'ambito delle proprie competenze sarebbe,
per di più, molto più deprecabile data l'attuale situazione delle Regioni
italiane; mentre, infatti, può essere giustificato l'atteggiamento
antiregionalista assunto dalla Consulta negli anni '70 - '80, quando gli
enti regionali erano appena nati e, quindi, privi di organizzazione e di una
marcata autonomia politica, oggi questi ultimi hanno raggiunto uno
"spessore" decisamente ragguardevole e che merita di non essere frustrato
dalle indebite ingerenze statali alle quali siamo stati abituati...per di
più con la "benedizione" della Corte Costituzionale!
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