È reato offendere la propria moglie che, non avendo un lavoro, non contribuisce al sostentamento materiale della famiglia. Lo ha stabilito la Cassazione che ha confermato la condanna a 2 anni di reclusione inflitta dalla Corte d'appello di Lecce nei confronti di un 48enne per maltrattamenti in famiglia.
L'uomo era solito vessare la moglie con epiteti offensivi e spesso le faceva pesare il fatto di non contribuire al menage familiare e di essere a suo carico poiché ancora impegnata negli studi universitari. Ad aggravare la situazione anche un tentativo di violenza sessuale in un periodo in cui si stavano separando.
La motivazione della sentenza della Suprema Corte (n. 40845/2012), poggia principalmente sui "caratteri di ripetitività degli episodi di violenza morale e fisica". L'uomo era infatti "solito offendere la moglie rivolgendosi a lei con epiteti infamanti ed umilianti, facendole pesare di essere a suo carico non percependo un proprio reddito, si' da instaurare un regime di vita logorante, volto al continuo discredito della moglie, annientandone la personalità".
In quanto alla violenza sessuale la corte fa anche notare che ciò che conta, al fine di configurare il reato, è "la sussistenza di un'offesa al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, cioè la libertà di autodeterminazione in ambito sessuale", e, prosegue la sentenza, non può "ritenersi rilevante il particolare contesto in cui è stata posta in essere, caratterizzata dall'esistenza di un rapporto coniugale fra la vittima e l'imputato, da poco tempo naufragato, e le motivazioni del tentativo di recuperare il rapporto matrimoniale, prese in considerazione dai giudici di appello per riconoscere l'attenuante".
L'uomo era solito vessare la moglie con epiteti offensivi e spesso le faceva pesare il fatto di non contribuire al menage familiare e di essere a suo carico poiché ancora impegnata negli studi universitari. Ad aggravare la situazione anche un tentativo di violenza sessuale in un periodo in cui si stavano separando.
La motivazione della sentenza della Suprema Corte (n. 40845/2012), poggia principalmente sui "caratteri di ripetitività degli episodi di violenza morale e fisica". L'uomo era infatti "solito offendere la moglie rivolgendosi a lei con epiteti infamanti ed umilianti, facendole pesare di essere a suo carico non percependo un proprio reddito, si' da instaurare un regime di vita logorante, volto al continuo discredito della moglie, annientandone la personalità".
In quanto alla violenza sessuale la corte fa anche notare che ciò che conta, al fine di configurare il reato, è "la sussistenza di un'offesa al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, cioè la libertà di autodeterminazione in ambito sessuale", e, prosegue la sentenza, non può "ritenersi rilevante il particolare contesto in cui è stata posta in essere, caratterizzata dall'esistenza di un rapporto coniugale fra la vittima e l'imputato, da poco tempo naufragato, e le motivazioni del tentativo di recuperare il rapporto matrimoniale, prese in considerazione dai giudici di appello per riconoscere l'attenuante".
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