Si parla di sovraffollamento delle carceri e si parla dell'Italia. La notizia più "cliccata" degli ultimi giorni ci racconta di un'Italia "criminale" condannata dalla Corte Europea dei Diritto dell'Uomo per trattamenti disumani dei detenuti. I quotidiani italiani si sono sbizzarriti a fare ironia dopo la sentenza Cedu ("Campioni d'Europa", titolava il Manifesto), già portata all'attenzione dei media da tutti coloro che si sono resi conto che vivere in meno di tre metri quadrati non è vivere ma sopravvivere: dallo sciopero della fame di Marco Pannella, al richiamo di Napolitano; dalla lettera dei più illustri costituzionalisti indirizzata al Capo dello Stato, alle battaglie provenienti dal mondo delle associazioni. Il dibattito non si è aperto e, ad eccezione di un "lieve" provvedimento-palliativo di inizio legislatura, il Parlamento ha deciso che una "questione di prepotente urgenza", come definita dal Professor Pugiotto, primo firmatario della lettera sullo stato delle carceri al Capo dello Stato, poteva attendere.
Il dopo è stato scritto dalle decisioni della Cedu. All'origine della condanna nei confronti della Repubblica italiana, vi sono i ricorsi di sette detenuti con cui è stata adita la Corte diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per denunciare le condizioni detentive contrarie all'articolo 3 della Convenzione ("nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti").
La lettera dei costituzionalisti rivolta al Capo dello Stato, ("quale primo garante della legalità costituzionale del nostro ordinamento, con la massima fiducia in un Suo immediato ricorso al potere di messaggio alle Camere, affinché il Parlamento eserciti finalmente le proprie prerogative per dare una contestuale risposta, concreta e non più dilazionabile, sia alla crisi della giustizia italiana che al suo più drammatico punto di ricaduta, le carceri") è tra i documenti più coraggiosi ed emblematici in grado di dipingere, nello specifico, in quali condizioni disumane i detenuti, di ogni nazionalità, sono costretti a (soprav)vivere.
Anche il rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattamento per migranti, realizzato dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato e presentato nell'anno appena trascorso parla di un dramma, di circa 67 mila persone all'interno di carceri che ne possono contenere 22 mila in meno.
Così, lo Stato italiano è inadempiente e deve pagare non solo perché questa situazione viola i principi che ci siamo dati come base della nostra convivenza, in particolare, l'art. 27 e cioè il principio secondo cui "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" ma (soprattutto), perché abbiamo assunto obblighi internazionali che ci impegnano al rispetto dei principi stabiliti dalla Cedu.
Almeno in questo, la "globalizzazione" (dei diritti), per dirla in modo spicciolo, ha avuto effetti favorevoli: il superamento delle barriere nazionali in favore di un più altro grado di tutela dei diritti. La Corte non si è limitata però a condannare l'Italia, che pagherà con i soldi dei contribuenti: ha sollecitato il nostro paese a fare "qualcosa" che possa cambiare il destino degli individui che popolano gli istituti penitenziari.
L'Italia si porta dietro questa situazione come un fardello, come il peccato originale dell'inerzia della politica: non si tratta solo di un problema "architettonico" ma di una questione ben più complessa che deve, soprattutto dopo questa sentenza, portare a ripensare al sistema penitenziario, questa volta, però, in termini nuovi. Ci vogliono le famose "riforme strutturali" (e quando mai!): una delle espressioni più abusate dalla politica che rimane retorica se tutti gli input indirizzati al Parlamento rimangono lettera morta. Il completo disinteresse della politica ci fa pensare che è come se le carceri fossero un mondo a parte in cui i diritti di quelli "cattivi" non devono essere rispettati, perché in fondo, queste persone hanno sbagliato e, oltre alla pena, gli si deve far scontare qualcos'altro.
Figurarsi se la pena, a queste condizioni, possa rieducare. Senza dimenticare, che le carceri "ospitano" soggetti condannati in via definitiva ma anche soggetti in attesa di giudizio e quindi considerati non colpevoli fino alla condanna definitiva. Se questa non è una tragedia…
Il dopo è stato scritto dalle decisioni della Cedu. All'origine della condanna nei confronti della Repubblica italiana, vi sono i ricorsi di sette detenuti con cui è stata adita la Corte diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per denunciare le condizioni detentive contrarie all'articolo 3 della Convenzione ("nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti").
La lettera dei costituzionalisti rivolta al Capo dello Stato, ("quale primo garante della legalità costituzionale del nostro ordinamento, con la massima fiducia in un Suo immediato ricorso al potere di messaggio alle Camere, affinché il Parlamento eserciti finalmente le proprie prerogative per dare una contestuale risposta, concreta e non più dilazionabile, sia alla crisi della giustizia italiana che al suo più drammatico punto di ricaduta, le carceri") è tra i documenti più coraggiosi ed emblematici in grado di dipingere, nello specifico, in quali condizioni disumane i detenuti, di ogni nazionalità, sono costretti a (soprav)vivere.
Anche il rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattamento per migranti, realizzato dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato e presentato nell'anno appena trascorso parla di un dramma, di circa 67 mila persone all'interno di carceri che ne possono contenere 22 mila in meno.
Così, lo Stato italiano è inadempiente e deve pagare non solo perché questa situazione viola i principi che ci siamo dati come base della nostra convivenza, in particolare, l'art. 27 e cioè il principio secondo cui "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" ma (soprattutto), perché abbiamo assunto obblighi internazionali che ci impegnano al rispetto dei principi stabiliti dalla Cedu.
Almeno in questo, la "globalizzazione" (dei diritti), per dirla in modo spicciolo, ha avuto effetti favorevoli: il superamento delle barriere nazionali in favore di un più altro grado di tutela dei diritti. La Corte non si è limitata però a condannare l'Italia, che pagherà con i soldi dei contribuenti: ha sollecitato il nostro paese a fare "qualcosa" che possa cambiare il destino degli individui che popolano gli istituti penitenziari.
L'Italia si porta dietro questa situazione come un fardello, come il peccato originale dell'inerzia della politica: non si tratta solo di un problema "architettonico" ma di una questione ben più complessa che deve, soprattutto dopo questa sentenza, portare a ripensare al sistema penitenziario, questa volta, però, in termini nuovi. Ci vogliono le famose "riforme strutturali" (e quando mai!): una delle espressioni più abusate dalla politica che rimane retorica se tutti gli input indirizzati al Parlamento rimangono lettera morta. Il completo disinteresse della politica ci fa pensare che è come se le carceri fossero un mondo a parte in cui i diritti di quelli "cattivi" non devono essere rispettati, perché in fondo, queste persone hanno sbagliato e, oltre alla pena, gli si deve far scontare qualcos'altro.
Figurarsi se la pena, a queste condizioni, possa rieducare. Senza dimenticare, che le carceri "ospitano" soggetti condannati in via definitiva ma anche soggetti in attesa di giudizio e quindi considerati non colpevoli fino alla condanna definitiva. Se questa non è una tragedia…
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