Per i danni conseguenti alla diffamazione a mezzo stampa, il direttore responsabile concorre sempre in solido con il giornalista sia, a titolo di colpa, nell'ipotesi di omissione della dovuta attività di controllo, che, per dolo, nell'ipotesi in cui abbia concorso nel reato ex art. 110 c.p. Così ha statuito la Corte di Cassazione, con sentenza n. 10252 del 12 maggio 2014, nella vicenda inerente la richiesta di risarcimento per danni alla propria reputazione, avanzata da un avvocato nei confronti di un giornalista e del direttore di una rivista, a seguito della pubblicazione di un articolo contenente riferimenti diffamatori nei confronti dello stesso.
La domanda del legale, respinta in primo grado, veniva accolta dalla Corte d'Appello che condannava in solido il giornalista e il direttore, escludendo la scriminante del diritto di cronaca per mancanza del requisito della verità della notizia. Il direttore responsabile proponeva ricorso per Cassazione per due motivi: intervenuta violazione e falsa applicazione delle norme in tema di scriminanti del diritto di cronaca giornalistica e di quelle in materia di responsabilità del direttore del giornale per omesso controllo o per concorso nella condotta diffamatoria. La Cassazione, dichiarando inammissibile il primo motivo, per non aver contestato idoneamente che "la corte di merito abbia fatto cattivo uso delle norme sulla scriminante dell'esercizio del diritto di cronaca avendo erroneamente escluso il requisito della verità della notizia", in ordine al secondo coglieva l'occasione per ribadire il principio pacifico in giurisprudenza sulla responsabilità solidale del direttore di un giornale con il giornalista autore dello scritto diffamatorio, sia per colpa che per dolo, nell'ipotesi di omissione o di concorso nel reato.
In particolare, osservava la S.C. che "i poteri di controllo che devono essere esercitati dal direttore responsabile di un giornale non si esauriscono nell'esercizio di un adeguato controllo preventivo, che si esprime nella oculata scelta per la redazione di una determinata inchiesta giornalistica di un giornalista che ritiene idoneo, ma anche nella vigilanza ex post, sui contenuti e sulle modalità di esposizione di essi nell'articolo destinato alla pubblicazione (oltre che sulla collocazione, sul risalto, sulla titolazione)". Al direttore spetta, inoltre, secondo la Corte, sia la verifica sulla "verità dei fatti o la attendibilità delle fonti" che quella "più delicata e più legata alla conoscenza dell'idoneità evocativa delle parole" volta a riscontrare se, come nel caso di specie "alcuni fatti esposti, in sé comprovatamente veri ed altri quanto meno attendibili non siano tali, per il loro utilizzo fuori contesto, o per la suggestione ed i collegamenti impliciti che l'espressione giornalistica deliberatamente utilizzata è idonea a creare nel lettore, ad essere in concreto diffamatori".
In definitiva, per la Corte, il compito del direttore non può esaurirsi in una mera "presa d'atto" ma deve estendersi anche al contenuto delle pubblicazioni per evitare di incorrere in profili penalmente o civilmente rilevanti, per cui, non potendo valere come esimente la professionalità del giornalista che firma l'articolo ovvero la sua esperienza particolare in materia, la Corte ha rigettato il ricorso confermando la condanna in solido.
Cassazione Civile Sentenza 12 maggio 2014, n. 10252