di Roberto Cataldi
È di questi giorni la notizia del'imminente restauro de "l'Udienza", il cinico e disincantato film di Marco Ferreri. Un restauro che sarà sostenuto attraverso una campagna crowdfunding. Ma non è di cinema che voglio parlarvi. Piuttosto vorrei parlare di un altro "restauro" e di un altro tipo di udienza. Quella con cui noi tutti avvocati abbiamo quotidianamente a che fare
L'articolo 46 comma 2 del codice deontologico forense impone all'avvocato di rispettare la puntualità sia in sede di udienza sia in ogni altra occasione di incontro con i colleghi.
Basterebbe farsi una passeggiata per le aule dei diversi tribunali italiani per comprendere come la puntualità, soprattutto in udienza, sia ancora una mera illusione. Ed i ritardi non sono "imputabili" non solo a noi avvocati ma anche ai Magistrati. Di sicuro la puntualità non è una prerogativa comune degli operatori del diritto.
Ci sono addirittura magistrati che arrivano sistematicamente in ritardo alle udienze e che, al contrario, pretendono puntualità da parte degli avvocati.
Entrando in un tribunale spesso si percepisce una disorganizzazione di fondo. Spesso la trattazione delle cause è fissata senza distinzione di orario e senza l'indicazione di un ordine di chiamata.
Si può quindi bene immaginare cosa accade quando avvocati, parti e testimoni di trenta o quaranta cause si trovano tutti nella stessa aula alla medesima ora; qualcosa di simile alla famosa piazza Jemaa el Fna di Marrakech.
Confusione a parte (e non è cosa da poco) si rischia di perdere l'intera mattinata anche per una questione che si potrebbe trattare in pochi minuti.
Talvolta si ha l'impressione che i magistrati non si preoccupino affatto del disagio in cui si trovano gli avvocati costretti a ore snervanti di attesa. Una mancanza di rispetto anche nei confronti delle parti, che si trovano comunque a dover "mettere in piazza" questioni private e a doverne "condividere" i contenuti come fossimo tutti in un grande social network giudiziario.
Tutti a questo modo perdono tempo. Ed è la cosa che infastidisce più; perché tutto quel tempo, tutto quel lavoro perso, potrebbe essere di sicuro più costruttivo oppure, perché no, destinato a incrementare le ore di tempo libero.
Insomma, l'attesa nelle aule dovrebbe essere l'eccezione, non la regola.
Probabilmente aveva ragione Oscar Wilde quando scriveva che "La puntualità è il ladro del tempo". E' proprio quello che accade quotidianamente nei nostri tribunali. Ci rubano il tempo, appunto. Quel tempo che potremmo dedicare a cose molto più gratificanti.
Ma allora se proprio non è possibile convincere tutti ad un maggiore rispetto del tempo altrui, forse un metodo per superare questo inconveniente potrebbe arrivare proprio dai Social Network e dalla loro tecnologia. Oggi è possibile mettere in contatto un numero indefinito di persone con grande facilità.
Proviamo a immaginare un balzo nel futuro, qualcosa di più incisivo dell'attuale processo telematico. Pensiamo a quante riunioni, accordi e joint venture avvengono oggi semplicemente attraverso una chiamata via Skype.
Le aziende di tutto il mondo hanno limitato persino i costi delle trasferte con l'incredibile scoperta della videochiamata.
Se la puntualità non è possibile non si potrebbero celebrare le udienze a distanza?
Del resto a Cremona si è già svolto un processo penale via skype (si veda l'articolo: Si è svolto a Cremona il primo processo in 'conference call' via Skype).
A quel punto la fila la farebbe un PC che ci potrebbe avvisare con un semplice "alert" quando è il nostro turno.
Certo si deve poi impedire che questa grande evoluzione digitale possa diventare un'altra forma di "controversia" e allo stesso tempo si dovrebbe trasmettere cultura telematica di facile comprensione, accessibile e alla portata di tutti.
Ricordo ancora quando ci fu il passaggio dall'utilizzo della vecchia macchina da scrivere ai computer, dall'uso della carta carbone alla fotocopiatrice.
Si credeva allora che la tecnologia avrebbe potuto semplificare le cose e liberare il nostro tempo. Di fatto non è stato così. Le potenzialità della tecnologia non sono state utilizzate per liberare il tempo ma per rendere il lavoro ancora più complesso e articolato.
A quei tempi si poteva presentare una richiesta di iscrizione a ruolo su un semplice "uso bollo" indicando le parti (senza neppure le generalità che comunque si potevano desumere dagli atti) e scrivendo solo "si chiede l'iscrizione a ruolo".
L'avvento della tecnologia ci ha portato a rendere più complessa la compilazione di una nota di iscrizione e oggi la compilazione del modulo richiede quindi molto più tempo di quanto non fosse necessario in passato.
La tecnologia quindi deve essere utilizzata al meglio per venire incontro alle nostre esigenze e per semplificare il lavoro.
Detto questo bisogna comprendere che ci sono avvocati, magistrati e cancellieri ancorati all'antica tradizione, che commemorano incartamenti cuciti a mano con ago e filo e che sono stati loro malgrado catapultati nell'era della tecnologia, subendo nel proprio lavoro il radicale cambiamento in atto: dall'uso totale delle classiche scartoffie, alla PEC e al processo telematico.
Sappiamo bene che non tutti hanno approvato con entusiasmo questi repentini e celeri stravolgimenti, ma sono fuori da ogni dubbio, le possibili semplificazioni e i benefici sotto il profilo della produttività, che comporteranno (mi auguro a breve) in tutti i settori, non solo in quello forense.
Restaurare l'udienza però non significa solo processo telematico e udienza distanza. Significa anche ipotizzare una riforma del processo che semplifichi gli aspetti procedurali.
Dovrebbe bastare un unico rito valido per tutti i tipi di procedura, si potrebbero eliminare udienze che comportano inutili rinvii come quella della precisazione delle conclusioni.
Si potrebbe anche eliminare l'udienza per raccogliere il giuramento di un consulente tecnico d'ufficio. Basterebbe raccogliere il suo giuramento una sola volta (al momento della iscrizione in un apposito albo) e far sì che tale giuramento sia valido per tutti i futuri incarichi. Del resto anche un medico presta giuramento di Ippocrate ma di certo non lo ripete ogni volta che deve visitare un paziente.
Ed ancora: perché non prevedere un meccanismo che consenta al giudice di primo grado di emendare i propri errori commessi nella sentenza?
Se il giudice ha omesso di motivare su un punto decisivo della controversia, prima di proporre appello non si potrebbe richiedere allo stesso giudice di emendare il suo errore?
Questo comporterebbe un enorme risparmio di tempo ed eviterebbe l'attesa di un giudizio appello a cui si potrà sempre ricorrere dopo che il primo giudice ha avuto modo di modificare o confermare la propria decisione.
Si potrebbe adottare un meccanismo analogo a quello che oggi si utilizza oggi per le consulenze tecniche d'ufficio dove il c.t.u. prima di depositare la perizia definitiva invita una bozza ai consulenti di parte, raccoglie le loro osservazioni, e dopo aver apportato eventuali modifiche, presenta la stesura definitiva.
Del resto qualcosa di simile accade già con le ordinanze anticipatorie emesse al termine dell'istruttoria. In tal caso la parte può richiedere che il giudice emetta la sentenza oppure lasciar decorrere il termine per tale richiesta e fare in modo che l'ordinanza acquisti efficacia di sentenza (a sua volta soggetta alla normale termine d'impugnazione).
Insomma tecnologia e semplificazione dovrebbero essere alla base di ogni futuro provvedimento legislativo.
E a questo punto perché non sfruttare fino in fondo la forte ed energica ondata digitale per snellire situazioni come quelle che si creano tutti i giorni in aula? Come tutte le cose, è più difficile a dirsi che a farsi.
I più giovani (avvocati e magistrati) sono certamente facilitati nel comprendere e applicare gli sviluppi tecnologici; con un po' di fiducia in più verso le nuove "leve" tutto tornerebbe in modo più semplificato. Perché non provare. In fondo restaurando l'Udienza, non si compromette, la bellezza di una pellicola.
Roberto Cataldi