I MISTERI DELLA BANCA CENTRALE - 1
I.- La banca centrale ama circondarsi di una cortina di silenzio, alla quale viene dato il nome di riservatezza ma che, nei fatti, significa carenza di trasparenza.
Ancor oggi, se si chiede ad un comune cittadino cosa è la banca, quali ne siano i compiti e la collocazione istituzionale, si ricevono risposte confuse ed incerte. Sopratutto, è del tutto ignota la sua funzione più importante, quella di battere moneta: infatti tutti sono convinti che questa funzione sia svolta dallo Stato.
Ma ciò che maggiormente rende questa "banca" un incomparabile fenomeno alieno, è la sua nascita e la sua collocazione nelle istituzioni pubbliche. Già l'ideazione e la realizzazione delle banche centrali è fenomeno che appare riduttivo definire assolutamente sconcertante per la totale anomalia che presenta sul piano politico-sociale, del diritto costituzionale e dei principi e valori democratici più elementari.
Indubbiamente, ci sono sempre stati dei centri di interesse privato che riescono in qualche modo a far fare allo Stato ciò che fa loro comodo, ma qui andiamo clamorosamente molto oltre gli episodi specifici per per arrivare ad uno strumento di gestione diretta della collettività, in grado di orientarne il livello di ben essere, le condizioni di vita, e di dettarne le strutture interne.
Prenderemo in esame il caso specifico della banca centrale italiana come caso e modello emblematico di una realtà che, ancor più incredibilmente, è planetaria. Ne tratteremo, ovviamente, con l'avvertenza che - oggi - i relativi poteri e funzioni sono stati trasferiti (altro fatto incredibile) alla Banca centrale europea. Immagineremo dunque che la banca sia tuttora in condizione pre-Bce, ben sapendo che tutto ciò che diremo si applica ora alla Bce medesima (come del resto, a tutte le banche centrali di tutto il globo).
A. - Vediamo dunque in dettaglio che cosa è la Banca d'Italia, cosa fa e con quali effetti, così da inquadrarla sul piano funzionale e su quello istituzionale.
1. - Si tratta in effetti di un ente dalle caratteristiche assai particolari.
Nasce, con legge dello Stato (n.443) del 10 agosto 1893, dalle ceneri della fallita Banca Romana, e dalla fusione della Banca Nazionale del Regno, con la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito.
La forma giuridica è quella di una qualunque società per azioni.
Pur essendo dunque di diritto privato, ebbe attribuito lo specialissimo compito, tipicamente pubblico, di battere moneta e di stabilire il livello dei tassi di interesse.
Potestà, queste, diventate esclusive con il R.D. 6.2.1926, n. 812 sull'unificazione degli istituti di emissione. Tale autorità all'epoca era infatti esercitata anche da Banco di Napoli e Banco di Sicilia.
L'attribuzione peraltro della potestà di battere moneta (detta oggi anche "signoraggio") ad un privato, è assolutamente al di fuori delle righe.
Battere moneta non solo è sempre stata antica, e diciamo pure gelosa, prerogativa del sovrano, ma - per sua natura - aveva ed ha rilevanti ripercussioni immediate sulla economia reale della collettività nel suo insieme.
È perciò facoltà che supera la dimensione privatistica per assurgere a tipico - ed essenziale - strumento di gestione di uno Stato.
La privatizzazione della moneta, a fronte di quelle degli Uffici Postali, degli acquedotti, dei servzi di comunicazione, dei trasporti, delle autostrade, rappresenta - oltreché un tradimento della collettività ed un grossolano abuso - un assai più grave sovvertimento dei principi fondamentali che reggono la collettività ed è generatrice di un modello economico-sociale perverso, che costringe la società a sopportare sacrifici per arricchire poche persone.
Un politico, soprattutto allorché accede a responsabilità di governo, quando tollera questa enormità, si rende complice del potere economico e si pone contro la collettività.
Comunque, alla banca venne affidato, nel 1894, anche il servizio di cassa per conto dello Stato (pagamenti ed incassi: detto anche Servizio di Tesoreria).
Un'attività, quest'ultima, certamente delegabile dallo Stato al privato, anche se comportante risvolti di particolare collegamento con il mandante, oltrechè condizioni di speciale privilegio.
2. - Successivamente, però, e questa appare come un'altra ancor più notevole singolarità per un privato, le venne conferito il potere di esercitare il controllo sull'intero sistema bancario (cioè, e qui è un altro punto incredibile, sui detentori - come vedremo - del suo stesso capitale!). In pratica, in tal modo, i controllati si autocontrollano.
Questo insieme di attribuzioni induce subito ad alcune considerazioni e suggerisce taluni interessanti interrogativi.
E' sicuramente fuori dalle regole di una società civile che il potere di battere moneta sia affidato ad un privato, e così pure che a questi vengano anche assegnati i delicatissimi compiti del controllo sui tassi, sul credito e sulle banche, tutti strumenti essenziali per la gestione dell'economia nazionale.
E' notorio, infatti, che la disponibilità della leva monetaria costituisce il più importante strumento di gestione dell'economia e, perciò - indirettamente - della stessa collettività nazionale.
Quali motivi hanno potuto indurre lo Stato a questa auto-privazione (giuridicamente del tutto illegittima)? Quali conseguenze essa ha sulla gestione della cosa pubblica? E, in definitiva, a favore di chi è stata effettuata?
Cerchiamo di rispondere a questi interessanti quesiti, non senza ricordare, per inciso, che il R.D. 28.4.1910 n. 204 (Testo unico sugli istituti di emissione) stabilì che "l'interesse dovuto dal Tesoro per le dette anticipazioni (a suo favore) è ragguagliato alla ragione di lire 1,50 per cento al netto di ogni imposta".
In altri termini viene stabilito che lo Stato (e cioè la collettività) deve pagare un interesse per la quantità di moneta ricevuta dall'ente privato cui ne ha delegato la creazione.
Se il presupposto dell'azione delle istituzioni è di perseguire il bene comune, questo è il più perfetto esempio dell'esatto contrario.
3. - Intanto, nel 1936, con apposita disposizione legislativa (c.d. "legge bancaria"), fu attestato che l'attività bancaria costituiva "servizio di interesse pubblico" ed alla Banca d'Italia venne attribuita natura quasi pubblica ("è ... istituto di 'diritto' pubblico": art. 20, detto).
Le sue azioni vennero pudicamente battezzate "quote", e rimasero in possesso sostanzialmente degli stessi soggetti che già possedevano le azioni, e cioè (in via esclusiva) le casse di risparmio, le banche ordinarie e gli istituti di assicurazione e previdenza (vale a dire enti privati), tra i quali la legge esplicitamente circoscrisse la possibilità di partecipare al capitale della Banca d'Italia (anche quest'ultima appare una limitazione giuridicamente assai anomala: nessun cittadino infatti può rendersi acquirente o detenere le "quote"). Il "giardinetto" degli azionisti della banca deve (evidentemente!) essere riservato ai membi del clan finanziario.
Da rilevare, tra l'altro, che la banca, esattamente come qualsiasi altra società anonima, paga annualmente i dividendi ai propri azionisti (che, con fine eufemismo, non scevro di involontario umorismo, sono chiamati "partecipanti").
Questa legge sembra voler fare un passo avanti, nella configurazione giuridica dell'ente, ed invece, a ben guardare, ne fa due indietro.
Essa attribuisce infatti natura quasi pubblica alla Banca d'Italia, ma senza acquisirla fra gli organi dello Stato, tanto che se ne statuisce l'autonomia. Viene così a configurarsi un prodotto giuridicamente mostruoso e deforme, oltrechè improponibile, per l'attribuzione contemporanea di caratteri incompatibili, pubblici e privati.
All'etichetta: "pubblico", non fanno riscontro i connessi contenuti sostanziali di connessione "organica" con il corpo dello Stato.
L'attribuzione dell'appellativo "pubblico" ad un ente posseduto da privati, è una palese contraddizione in termini. Formalmente, consente però di conferirgli la connessa posizione privilegiata e la conseguente patente di autorevolezza e di affidabilità istituzionale, (tale posizione attribuisce anche autorità erga omnes alle sue decisioni).
Soprattutto, ha come importantissimo effetto di sottrarre la banca al quadro normativo privatistico, che le sarebbe proprio, cancellandone il riferimento economico tipico: l'economicità della gestione (ed escludendone anche il fallimento). In tal modo la banca può vivere al di fuori di qualunque logica di equilibrio contabile: in sostanza, a differenza dello Stato, può prelevare - dalla moneta che crea - tutte le somme che vuole, senza pagare alcun interesse.
La banca, sotto i profili funzionale e strutturale, mantiene e rafforza l'originaria condizione privatistica: è costruita cioè una entità, del tutto autonoma e separata rispetto al corpo dello Stato, dotata di regole sue proprie, da essa medesima stabilite e assolutamente indipendente, non solo nell'autodeterminarsi, ma anche nel gestire la collettività, potendo assumere insindacabilmente decisioni che ne determinano le condizioni di vita.
Infatti, è libera di chiudere o aprire i rubinetti del credito e di fissare a proprio piacimento la massa del denaro in circolazione (e ciò significa il livello dell'inflazione), influendo così, direttamente, sull'attività produttiva nazionale e sulla occupazione. Determinando il livello dei tassi, stabilisce il prezzo del denaro per famiglie e imprese (nonchè il livello dei profitti degli investimenti finanziari).
La banca, già obbligata per legge ad acquistare i titoli del debito pubblico a breve che il Tesoro non riusciva a collocare presso i risparmiatori venne sollevata anche da tale vincolo nel 1981.
Ora, parlare di un ente pubblico centrale "autonomo", è un'insensatezza.
Abbiamo detto "pubblico", perché tale è la banca, sotto il profilo sostanziale.
Un ente è pubblico quando è parte organica dell'organizzazione amministrativa dello Stato, nella quale svolge una funzione corrispondente ad uno dei compiti propri dello Stato.
Se gli incarichi attribuiti alla banca sono intrinsecamente di pertinenza dello Stato (come non è contestabile), è assolutamente inconcepibile che un braccio operativo dello Stato stesso sia del tutto indipendente dal "cervello" che dirige l'organismo. Lo Stato deve avere il controllo e quindi disporre e disciplinare in ordine a tutte le attività che gli competono.
Non solo, ma che la banca disponga di discrezionalità operativa totale e addirittura che partecipi, jure proprio ad organizzazioni internazionali nelle cui sedi vengono definite strategie ed interventi vincolanti per lo Stato, è assolutamente al di fuori delle righe.
E' da notare che a questa patente di "nobiltà" pubblica non sono poi fatti corrispondere gli obblighi e le responsabilità verso la comunità nazionale che, della attribuzione di un potere pubblico, costituiscono la naturale contropartita.
Comunque, per riassumere: oltre ai compiti di Tesoreria dello Stato, alla banca furono attribuite funzioni di regolazione della massa monetaria, di supervisione del sistema bancario e finanziario, (con competenze specifiche anche per la tutela della concorrenza), di fissazione del tasso di sconto, nonché il potere di effettuare la vigilanza sui mercati dei valori mobiliari e sul sistema dei pagamenti.
4. - È interessante notare, in proposito, che le disposizioni emanate dalla banca non considerano ad essa medesima applicabili la maggior parte delle norme dello Stato che regolano e guidano l'attività degli enti pubblici, e ciò in ragione della "specificità che ci contraddistingue".
La banca, dunque, ha una struttura privatistica, imperniata su di un consiglio di amministrazione (il cosiddetto "Consiglio Superiore", formato da persone selezionate per sicura fede capitalistica), che (formalmente) ne determina e forma la volontà, come una qualunque società per azioni, (ed a differenza della amministrazione dello Stato, che dalle Istituzioni, e non dai privati, riceve le direttive e gli indirizzi di comportamento).
Per certi aspetti, si potrebbe addirittura affermare che essa è dotata di un potere più forte ancora di quello dello Stato, poiché essa può farne libero ed arbitrario uso (come vedremo infra) senza risponderne a nessuno, cioè senza i limiti derivanti dalla responsabilità politica, che caratterizza invece il potere pubblico davanti al Paese.
5. - Comunque, non si può ignorare che questo inappropriato privilegio di potere proviene alla banca dallo Stato medesimo, il quale glielo ha attribuito con apposite norme di legge.
Ma portata e risultato di questa operazione normativa lasciano assai perplessi, ed inducono interrogativi rilevanti sulla legittimità di questa estemporanea manifestazione legislativa, decisamente impropria.
Infatti, con queste norme, il popolo è stato seccamente privato del suo potere con riferimento ad un ente le cui decisioni, pur essendo solo sue proprie, vincolano tutto il Paese (ed in aree di enorme rilevanza, come vedremo). La cosa è in effetti sconcertante, ed evidenzia un uso della potestà legislativa al di fuori delle righe: il Parlamento si è svestito di un potere che appartiene al popolo.
6. - Il delegato dal popolo (il Parlamento), non può, assiomaticamente, disporre del potere di chi lo ha eletto, come invece in questo caso ha fatto, spossessandolo di basilari poteri sovrani a favore della privata banca centrale.
"Il popolo è sovrano" dice la nostra Carta costituzionale, la quale non fa che formalizzare una norma di diritto universale di ovvia evidenza fin dai tempi di Platone, e che nessuno oserebbe contestare.
Pertanto, le sopra descritte norme che attribuiscono alla Banca d'Italia poteri di governo esclusivi in aree chiave della vita della nazione, sono, prima ancora che anticostituzionali, del tutto contrarie al diritto delle genti: il Parlamento, lo si ribadisce, non può privare il popolo del suo potere sovrano, in nessuna materia.
7. - Ecco allora, che prendono forma alcuni dei motivi per i quali qualcuno tempo addietro ha proposto che addirittura una norma costituzionale sancisse la "autonomia" della Banca d'Italia, e qualcun altro si è dichiarato anche disposto ad applaudirla.
Una tale disposizione, infatti, (che appare comunque, in quel contesto, come una singolare contraddizione in termini), non cambierebbe nulla sul piano sostanziale, alla evidente illiceità dello scorporo scismatico della Banca d'Italia dal corpo dello Stato, ma - sul piano formale - potrebbe servire a confondere le idee ai non esperti della materia.
L'indipendenza della banca centrale, che viene regolarmente imposta dagli USA (cioè dai centri finanziari mondiali che vi hanno sede privilegiata) tramite le "direttive" che il FMI pone tra le condizioni ai suoi prestiti, ha come obbiettivo di sottrarre allo Stato la gestione dell'economia, per quanto si riferisce a: livello dei tassi, entità complessiva del credito erogato dal sistema bancario, controllo della quantità di moneta in circolazione, determinazione del tasso di cambio, controllo dell'inflazione (in pratica, le leve essenziali per controllare l'economia, il benessere della popolazione e il livello dell'occupazione).
Tali compiti sono ora affidati alle mani sicure di un elemento di fiducia della finanza mondiale: il governatore della banca centrale. Una personalità scelta in quanto di gradimento, e tale da garantire la fedele esecuzione dei dettami impartiti, indipendentemente dalle esigenze del Paese.
8. - A questo punto, appare comunque interessante scoprire quali forze abbiano potuto sottrarre al popolo la sua sovranità, manovrandone i delegati perché ponessero mano a questa incredibile prevaricazione.
Al quesito si può trovare una risposta in "contro faccia", andando a vedere chi sono i "partecipanti" al capitale della suddetta banca, cioè chi la comanda e chi ne è il padrone.
Come abbiamo già visto, sotto il profilo giuridico si tratta di casse di risparmio, banche in genere ed istituti di assicurazione e previdenza. Sotto quello del potere effettivo, abbiamo già visto chi tira le fila.
Si tratta quantitativamente, di una cerchia molto ristretta di persone, forse neppure lo 0,01% dell' intera popolazione italiana e internazionale. Deve però trattarsi di un gruppo di cittadini di prima classe, se è riuscito a creare un ente, la Banca d'Italia, munito del potere pubblico per gestire i suoi interessi privati.
Al grande capitale che costoro rappresentano, è stato in effetti concesso, con la banca centrale, lo straordinario espediente di sistemare nella amministrazione dello Stato una specie di proprio dicastero che, in via del tutto autonoma dal meccanismo di volizione dello Stato stesso, si trova in grado di gestire l'intera economia della nazione, (nell' ottica, ovviamente, della protezione primaria dei suoi specifici, privati, interessi).
9. - In definitiva, la Banca d'Italia ha per funzione statutaria, (stabilita con legge dello Stato!) quella di tutelare, gestire e proteggere gli interessi della finanza internazionale, disponendo - per far ciò - del potere, esclusivo degli organi dello Stato, di emanare disposizioni che vincolano, direttamente o indirettamente, tutta la nazione.
Indubbiamente, per un privato cittadino, tale condizione rappresenta veramente il massimo che possa desiderare: tutelare la propria personale posizione economica con il potere superiore dello Stato, così da imporla a tutta la collettività.
10. - Emerge con chiarezza, dunque, quella che è la vera funzione istituzionale di questa banca, per la quale è stata creata: garantire la non democraticità delle istituzioni.
L'affermazione può sembrare eccessiva e smodata, ma si ponga mente allo scopo di questo improprio aggeggio istituzionale: scongiurare - in modo tassativo e definitivo - il pericolo che la volontà del Paese (cioè del Parlamento) possa esprimersi in ordine alle scelte riguardanti l'economia monetaria, il credito ed i tassi di interesse.
Si tratta di un fenomeno di tale gravità che riesce difficile perfino concepirne l'esistenza nel nostro secolo, erede della grande cultura illuminista e della tradizione giuridica romana.
Eppure è così: tutta la materia attinente i fondamenti dell'economia è stata sottratta alle decisioni del Paese e consegnata, attraverso la Banca d'Italia, ai centri finanziari privati, perché provvedano a gestirsela in modo autonomo e separato, in base alle proprie convenienze, ma con la forza e l'efficacia delle decisioni dello Stato.
C'è di che restare allibiti: l'illegittimità costituzionale di questo "ente" è clamorosa, almeno quanto il silenzio con il quale è stata circondata e nascosta all'opinione pubblica nazionale.
Se aspiriamo ad uno Stato democratico, è ovvio che questo corpo estraneo deve immediatamente scomparire.
11. - La descritta posizione istituzionale privilegiata acquista particolare rilevanza e specifica corrispondenza, anche nella prospettiva della Unione europea, la cui struttura istituzionale è stata concepita proprio dai rappresentanti della finanza in modo da porre in primo piano non il potere politico, ossia la volontà del popolo, ma esclusivamente il potere finanziario privato.
Si può così constatare quale tipo di potere gestirà la futura Unione europea: non certo quello del popolo europeo. Ma di ciò tratteremo più oltre.
Si noti, incidentalmente, che questa violenza istituzionale a favore della finanza, è avvenuta nel 1936 e cioè sotto il governo "forte" di Mussolini. Concomitanza interessante e significativa.
12. - Vale ancora la pena di ribadire che la Banca d'Italia non è responsabile, di fronte al Paese, delle scelte che pure ad esso impone, come avviene invece - e come deve essere - per qualsiasi organo dello Stato, per tale intendendosi chi ne esercita il potere.
Come è noto infatti, se il popolo è insoddisfatto dell' operato dei propri rappresentanti, può mandarli a casa in occasione delle successive elezioni.
Non così avviene invece per la Banca d'Italia, quale che sia l'opinione che di essa e del suo operato il popolo può nel frattempo essersi formata.
Ove il popolo si interessasse dell' economia, senza demandarne la gestione ad altri, e potesse perciò eventualmente inorridirsi di ciò che fa la banca centrale, esso non potrebbe comunque mai cambiarne il vertice.
Infatti, come è noto, quest' ultimo non è eletto dal popolo (né direttamente né indirettamente) bensì dal consiglio di amministrazione della stessa banca, come avviene per tutte le società anonime, e successivamente avallato dagli organi istituzionali.
13. - Ordunque, gli esponenti di un ente che esercita fondamentali poteri di governo sulla nazione, non sono da questa eletti e, da questa medesima, non posso essere allontanati. Essi rendono conto del loro operato solo a coloro che li hanno nominati, cioè ai detentori del potere finanziario.
A questo punto se - come è concettualmente acquisito - democrazia significa "potere del popolo" si deve dedurre che le strutture esercitanti il potere pubblico in Italia non sono democratiche, poiché al di fuori del potere del popolo agisce la Banca d'Italia, che di potere istituzionale ne esercita (e molto).
14. - Tutti sanno, o possono intuire, che la politica economica costituisce il nucleo centrale della azione di un governo.
Dalle decisioni prese in materia dipendono infatti lo stato di benessere dei cittadini, il livello dell' occupazione, l'attività economica in generale, gli investimenti, la qualità dei servizi, dei trasporti, i problemi connessi agli affari esteri, alla difesa, agli interventi sociali, alla sanità, alla scuola, alla tipologia delle strutture economiche del Paese, e così via.
In definitiva, non si può fare politica, cioè amministrare un qualunque Paese, senza gestirne l'economia.
Sarebbe come quella famiglia dove il genitore "comanda" ma è la moglie che decide qualunque spesa.
E non è possibile fare politica economica senza il controllo della moneta e del credito.
Controllo di cui il governo si è illegittimamente privato, esautorandone il detentore: il popolo.
Ed infatti, chi gestisce moneta e credito è la Banca d'Italia che, in materia, è completamente indipendente ed autonoma dalle pubbliche istituzioni.
Così autonoma che se - in ipotesi - un esecutivo, per favorire occupazione, sviluppo e benessere, volesse decidere una politica di espansione economica, la banca centrale sarebbe in grado di impedirglielo, bloccando interessi, credito e massa monetaria e così imponendo al Paese sacrifici e recessione, nell'interesse dei grandi gruppi finanziari che la dirigono, ai quali interessa sopratutto l'assoluta mancanza di inflazione (che colpirebbe proprio le attività finanziarie che essi posseggono).
Di tale contrasto si è visto non lontano esempio allorquando l'allora primo ministro Craxi chiese (e già questo termine suona evidentemente anomalo in tale contesto) al governatore Ciampi di abbassare i tassi di interesse, al fine di rilanciare l'economia del Paese, all'epoca stagnante.
Ma Ciampi - forse istruito? - si rifiutò nettamente, in nome della sua "autonomia", di abbassare il livello del costo del danaro, e l'economia del Paese continuò a segnare il passo e la disoccupazione ad aumentare.
Riducendo i tassi, egli avrebbe - tra l'altro - causato difficoltà a molte banche che, all' epoca, avevano bisogno di compensare, con alti ratei di interesse sui fidi, le perdite accumulate con gestioni clientelari.
La banca centrale lotta strenuamente contro l'inflazione per difendere il valore della moneta, cioè del bene fondamentale del sistema finanziario. E' evidente, infatti, che l'inflazione erode i margini di profitto.
15.- In definitiva, la Banca d'Italia, con l'acquiescenza del potere politico, ha sempre manovrato da sola l'economia del Paese decidendone in piena discrezione il tasso di sviluppo, il benessere, la disoccupazione, eccetera, il tutto però nell' esclusivo interesse dei grandi detentori di capitali, e non di quello del popolo (che, però, ne paga le spese).
Chi apre e chiude il rubinetto del credito è sempre la banca centrale e la depressione o l'incremento dell'attività economica del Paese dipendono solo dalle sue decisioni.
Non può dunque sorprendere che, in tali condizioni, esista qualche (interessato?) sostenitore della indipendenza della banca centrale. Tema che non è superato oggi dalla costituzione della Bce: si pone solo su di un piano diverso.
Per la verità, costui preferisce ignorare le considerazioni ora svolte e si limita ad affermare, a sostegno della sua tesi, che i politici "potrebbero manipolare il governo della moneta a fini elettorali".
Sennonché, siffatta argomentazione appare macroscopicamente inconsistente e pretestuosa. L'elettorato giudica il governo dai risultati concretamente conseguiti.
Una manovra sulla moneta a fini "elettorali" è sicuramente possibile: rientrerebbe nei poteri (e doveri) ordinari dell' esecutivo. In ogni caso, però, se ne dovesse conseguire una recessione economica, il popolo sceglierebbe altri rappresentanti. Come è suo normale diritto.
Ai fautori dell' "autonomia" chiediamo ancora se non sarebbe meglio, per un governo, farsi condizionare da finalità elettorali o dagli interessi privati.
Nelle attuali condizioni, invece, questa diversa scelta esso non potrà mai fare per i responsabili della banca centrale, quali che siano gli esiti della politica economica da costoro posta in atto. Svilupperemo nel prosieguo altre argomentazioni al riguardo.
16. - Alla Banca d'Italia incombe il compito di tutelare la redditività degli strumenti finanziari, non gli interessi della collettività (che potrebbero anche trovarsi in contrasto con questo obbiettivo). Per questo motivo ai cittadini è sottratto ogni giudizio (nel senso di potere sanzionatorio), in ordine al suo operato.
17. - Incidentalmente, si può rilevare che la scelta, attuata e ripetuta in tempi recenti e meno recenti, di porre degli esponenti della banca d'Italia a ricoprire importanti ruoli nelle istituzioni (decisione che - si noti ancora - non proviene dal popolo), assume un pesante significato politico, poiché si tratta di persone incaricate di anteporre gli interessi del potere finanziario internazionale, a quelli della nazione.
La loro scelta per incarichi istituzionali è dunque assai inquietante in ordine alla tipologia di compiti che costoro saranno chiamati a svolgere.
18. - Ma riprendiamo il filo del nostro discorso, ed osserviamo che, ormai, la maggioranza dei Paesi, industrializzati e non, dispone di una banca centrale "indipendente".
Tale circostanza è fortemente dimostrativa del fatto che la finanza internazionale ha raggiunto ovunque posizioni di grande influenza, che le consentono, dietro la mascheratura di appositi enti "tecnici" (i famigerati FMI, Banca Mondiale, Ue, WTO, ecc.), di esercitare un potere sovranazionale, trasversale e indipendente rispetto alle strutture legali delle istituzioni.
Gli interessi del grande capitale riflettono d'altronde una organizzazione altamente efficiente ed in grado di influenzare i governi, che ne sono diventati l'Agenzia d'affari. Le scelte politiche provengono oggi dalla finanza, quelle finanziarie, dai governi, su istruzioni della finanza.
E' del resto agevole costatare che, ormai da molto tempo, nelle nazioni economicamente più sviluppate, si perseguono linee di politica economica orientate a favorire il grande capitale (privatizzazioni, contenimento della spesa sociale, prevalenza della logica del "mercato" rispetto alle esigenze "umane", liberalizzazione dei salari, libertà di licenziamento, eliminazione del rapporto di "pubblico" impiego, con la perdita delle connesse garanzie, tra le quali il concorso per le assunzioni (la c.d. "privatizzazione del lavoro"), limitazioni allo sciopero, liberalizzazione dei contratti di affitto, agevolazioni fiscali per le imprese, utilizzo senza limiti della Cassa Integrazione Guadagni, contributi a fondo perduto alle aziende, facilitazioni importanti a queste ultime, vincoli per i sindacati "di base", collegamento del salario alla "produttività" (una sorta di ritorno al famigerato "cottimo"), limitazioni all'accesso al servizio sanitario pubblico, riforma delle pensioni e del trattamento di fine rapporto, ristrutturazione dell'ISVAP (per conferire totale autonomia anche all'organo di governo delle assicurazioni), e così via elencando.
Questi, e consimili provvedimenti sono evidentemente contrari all'interesse delle popolazioni cui accrescono, anziché ridurre, le difficoltà del vivere.
Anche le privatizzazioni, oggi tanto diffuse e propagandate ovunque (anche grazie alle sollecitazioni delle banche centrali), altro non sono che possenti pilastri allo sviluppo del profitto privato.
19. - Per altro verso, (e ciò costituisce una conferma "a contrario" di quanto sopra), da molti anni a questa parte non è dato riscontrare, in alcun Paese industrializzato (salvo sporadici, casuali e limitati episodi), un solo importante provvedimento di legge di qualche valenza sociale, a favore del lavoro, dei cittadini più deboli, dei pensionati, dei disoccupati, dei più poveri.
Al contrario, si è verificato ovunque un forte inasprimento fiscale a carico del c.d. "ceto medio" (che, contrariamente all'equità, già contribuisce per oltre l'80% al totale del prelievo complessivo), mentre si sono diffusi ovunque alleggerimenti di imposta per i grossi capitali.
Nel contempo, molte garanzie minime della condizione del lavoratore, conquistate nell'ultimo secolo spesso con costi umani gravosissimi, sono state via via eliminate, tra la più sconcertante indifferenza generale.
Tutto ciò sta inequivocabilmente a dimostrare che, oggi, le strutture gestionali pubbliche che si identificano con il termine "Stato", sono interamente colonizzate dal grande capitale di cui proteggono gli interessi, in via prioritaria rispetto a quelli della collettività.
In questo contesto si chiarisce e si spiega l'inquietante anomalia della quasi onnipresente "indipendenza" delle banche centrali.
E' appena il caso di ricordare e ribadire, come abbiamo per l'innanzi spiegato, che il potere pubblico è stato attribuito perché venga esercitato nell'interesse della collettività.
Tale potere esso trasferisce ai suoi delegati entro i limiti della finalità loro demandata: l'amministrazione della collettività.
In queste condizioni, è chiaro a chiunque che l'esercizio del potere "collettivo" (o dello Stato), non può essere "autonomo" (acome avviene per la banca centrale), cioè non originato da una concreta delega del popolo e non direttamente controllato da questo.
B. - E' qui il caso, per completezza di argomento, di segnalare alcune singolarità che caratterizzano significativamente la struttura organizzativa interna di questo eteroclito ente denominato banca d'Italia, e che lo inquadrano in modo appropriato negli effettivi principi e "valori"che esprime e tutela, (e che sono assai lontani da quelli della collettività).
1. - Innanzitutto, il modello cui le norme statutarie e regolamentari interne si ispirano, è esattamente sovrapponibile a quello di una monarchia assoluta, secondo canoni che avrebbero incontrato l'invidia di un Luigi XIV.
Non ci riferiamo qui né al fatto che il governatore (il capo della struttura), era nominato a vita, come il Papa, a dimostrazione che non interessano i contenuti della funzione svolta (che sono infatti dettati dall'esterno), né alla circostanza che, se pur dovesse restare al suo posto anche un sol giorno per poi andare in pensione, percepirebbe comunque per tutta la sua esistenza lo stesso appannaggio previsto per il servizio. Una "pensione" che non trova paralleli….
Interessa piuttosto sottolineare che nel governatore sono accentrati tutti i poteri decisionali: al di fuori della sua persona, nessun altro, al vertice dell'istituzione, può operare, se non sulla base di sue deleghe specifiche ad personam, (e non di attribuzioni funzionali, collegate all'incarico rivestito, come sarebbe richiesto dai principi base dell'efficienza operativa).
Ciò si verifica anche nel microcosmo delle Filiali, dove tutti i poteri decisionali sono affidati al direttore: perfino le operazioni di sportello si effettuano "per delega del Direttore".
Questi dispone di un potere totalmente discrezionale sulla gestione del lavoro e, soprattutto, sul personale (sul quale si esercita un controllo spasmodico). Questa assolutezza di poteri, concentrata in una sola persona, e priva di qualunque contropotere da parte di altri soggetti non dotati di attribuzioni funzionali proprie, può originare facilmente abuso ed arbitrio.
L'ispettorato interno è alle dirette dipendenze del governatore ed opera praticamente senza una normativa che ne definisca i poteri e le modalità di intervento. Tra il personale è stata raccolta la convinzione che la sua principale funzione sia quella di fornire documentazione formale di supporto a decisioni già assunte sulle loro carriere personali.
E' di ciò conseguenza che tutto l'ente è costruito dalle fondamenta sull'applicazione dei più rigidi principi gerarchici, con una totale assenza di democrazia interna, di partecipazione e di confronto. E ciò risulta perfettamente consonante sia con la tipologia di funzioni che gli sono state affidate sia con la cultura tipicamente propria dei plutocrati e spiega altresì come l'evoluzione storica non abbia minimamente toccato questo ente, che di questa cultura mummificata è l'espressione più tipica.
Certo, considerata la cultura dispotica di cui sono imbevuti, insorgono forti preoccupazioni sulla capacità dei personaggi tratti dalla banca e posti in ruoli istituzionali, di nutrire improvvisamente una effettiva sensibilità democratica e di agire in conformità di autentiche istanze dello stesso tipo: in pratica, di comportarsi secondo valori e principi esattamente contrari a quelli che li hanno guidati per tutta la loro esperienza lavorativa.
2. - Sappiamo che la versione politica della gerarchia era lo Stato autoritario, o, ancor peggio, totalitario.
L'evoluzione storica ci ha fatto assistere al progressivo crollo di tali regimi, soppiantati da altri caratterizzati da una maggiore partecipazione politica.
Anche questi ultimi, tuttavia, hanno spesso evidenziato inefficienze gravi per un'eccessiva gerarchia al loro interno. E così si sono prodotte pressioni a tutti i livelli istituzionali, per decentrare, federalizzare, privatizzare e delegare il potere centrale, onde pervenire ad un più efficiente sistema organizzativo.
Questa evoluzione si è parallelamente, e contestualmente, manifestata anche nel campo privato.
Infatti, hanno via via smesso di funzionare le gerarchie aziendali troppo centralizzate e autoritarie dopo che diversi grandi gruppi multinazionali, eccessivamente burocratizzati e rigidi, avevano conosciuto pesanti difficoltà.
Le motivazioni sono le stesse che hanno creato problemi ai modelli politici autoritari.
Infatti, l'evoluzione del contesto economico e sociale verso configurazioni sempre più articolate e complesse, ha imposto a chi le governava l'acquisizione e l'elaborazione di una quantità di informazioni così vasta e molteplice che una sola, o poche persone, non sono in grado di raccogliere e padroneggiare.
3. - E' da rammentare, inoltre, che gerarchia è sinonimo di staticità, a sua volta prodromo di sclerosi funzionale ed operativa. Si tratta di una tipologia di carenze che, nel contesto odierno, nel quale solo l'innovazione costante consente alle imprese di sopravvivere, conduce ineluttabilmente alla decadenza ed alla estinzione.
Da ciò l'insopprimibile esigenza, per i vertici, di ricorrere ad apporti molteplici, variati e specialistici, onde acquisire la maggiore quantità possibile di dati ed informazioni, allargando nel contempo il processo decisionale per fruire dei più ampi contributi di creatività ed innovazione.
Nelle attuali condizioni di allargata concorrenza, innovare costituisce il primo imperativo categorico di ogni azienda.
Naturalmente, questa delega verso il basso erode il potere del capo, e perciò gli produce potenziali condizioni di insicurezza ed angoscia ove non sappia gestire questa nuova situazione.
Ed è proprio questa perdita di potere che spaventa il vertice della Banca d'Italia, che è rimasto rigidamente legato a ferrei ed immutati principi gerarchici, che garantiscono l'obbedienza acritica. La banca, d'altronde, deve solo eseguire le direttive impartitele dai centri del potere economico, non elaborare soluzioni, né gestire i problemi: le scelte relative sono già state fatte da altri.
4. - Si pensi che è addirittura vietato ai dipendenti far pervenire direttamente ai vertici dell' ente qualunque tipo di istanza, segnalazione o doglianza: questo genere di elaborati devono essere trasmessi per il tramite del superiore gerarchico.
Ora, appare scontato ed evidente a tutti che questi, ove pensi che l'iniziativa del dipendente possa in qualche modo danneggiarlo, farà quanto in suo potere per bloccarla, ridimensionarla o metterla in cattiva luce.
Il mantenimento di questa regola significa dunque che, per la cultura aziendale, è assai più importante inculcare il rispetto dell'autorità gerarchica, piuttosto che gestire il personale secondo i principi della giustizia e della correttezza: il culto dell'autorità deve prevalere su qualunque altra istanza: il dipendente ha comunque torto, nel momento in cui ardisce criticare il superiore gerarchico.
E' da notare, comunque, che l'applicazione di questo schema organizzativo riesce all'ente in questione ancora possibile (sia pure con il peso di inefficienze e costi gravosissimi, che ricadono poi sulla collettività), in quanto esso opera fuori dal mercato e dalle sue leggi.
La banca d'Italia, in effetti, produce (costosissimi) servizi in regime di monopolio.
I "prodotti" dell'ente, non entrano in competizione con altri identici od analoghi, poiché non esiste alcun "concorrente".
La banca, può continuare a generare enormi inefficienze e carenze di professionalità al suo interno, proseguendo tranquillamente a sopravvivere, grazie alla possibilità che le è concessa di scaricare i suoi costi sulla collettività.
Formalmente, cioè in base alla legge, sarebbe configurabile un controllo del bilancio dell'ente da parte della Corte dei Conti ma, di fatto, esso non è mai stato effettuato in modo approfondito, con appropriate analisi della congruità e fondatezza delle spese effettuate.
Nello stesso momento in cui, con la creazione della Banca centrale europea, venivano a ridimensionarsi significativamente ruolo, funzione e importanza della banca centrale nazionale, si procedeva a costruire a Roma un'ulteriore sede per la Banca d'Italia, nei pressi di Frascati, di dimensioni faraoniche ed affrontando spese enormi, al di fuori di ogni ragionevolezza.
In condizioni di diritto privato, la banca sarebbe ovviamente fallita da tempo.
5. - Improprio e dannoso sul piano istituzionale, questo ente è, su quello pratico, del tutto inutile.
Il servizio di incassi e pagamenti per conto dello Stato (di cui non sono mai stati chiariti i costi effettivi), potrebbe essere svolto dalle Poste con più efficienza e vantaggio per i cittadini, grazie anche alla maggiore snellezza operativa ed alla più diffusa capillarità territoriale.
Il controllo delle banche, è compito che pertiene al Tesoro, e non ad un ente che è diretta derivazione proprio del sistema bancario medesimo. La soluzione attuale cade nel più evidente dei conflitti di interesse.
La fabbricazione delle carte valori, potrebbe essere affidata a ditte private, a costi sicuramente inferiori agli attuali, mentre il controllo della circolazione e della moneta in genere, dovrebbe essere affidato al Tesoro, per le motivazioni già per l'innanzi sottolineate.
Merita riflettere che le considerazioni sopra svolte, su diversa scala, si applicano integralmente anche alla costruzione europea, ove anzi sembrano acquisire maggiore e puntuale incisività emblematica.
In questo campo, abbiamo assistito nel tempo ad uno stravagante fenomeno: una unione di Stati, quindi una nuova entità statale complessa, è stata sollecitata, promossa e definita nelle sue strutture, non dai popoli (detentori della "sovranità"), bensì dal PEO, cioè dal potere economico organizzato, con il contorno dei suoi sicofanti.
(continua....)