di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione civile a sezioni unite, sentenza n. 25012 del 25 Novembre 2014.
La proporzione e la ragionevolezza nella pattuizione del compenso professionale, sono "l'essenza comportamentale richiesta all'avvocato, indipendentemente dalle modalità di determinazione del corrispettivo a lui spettante".
E' quanto afferma la Corte di Cassazione chiarendo che deve considerarsi legittima la sanzione disciplinare della sospensione dall'attività professionale - sanzione convertita poi in sede d'appello, innanzi al Consiglio nazionale forense, nella censura - all'avvocato che fa siglare un accordo al cliente, con il quale quest'ultimo si impegna a versare al legale un onorario pari al 30% dell'importo totale del risarcimento al termine della controversia.
Nella fattispecie esaminata dai giudici di Piazza Cavour un avvocato aveva deciso di assistere un extracomunitario nullatenente rimasto invalido al 95% a seguito di incidente stradale, e aveva stipulato con lui un patto espressamente denominato "patto di quota lite".
Ribadito anche nel codice deontologico attualmente vigente, il divieto di patto di quota lite esisteva già all'epoca in cui si sono verificati i fatti.
La Cassazione osserva però che, se da una parte, tra legale e cliente, è ammessa la stipula di contratto avente ad oggetto "una parte o una quota della res litigiosa" (ossia un compenso basato su una percentuale sul valore dell'affare), dall'altra è fatto assoluto divieto all'avvocato di richiedere una quota del tutto aleatoria, la quale dipende appunto, sia nell'an che nel quantum, dall'esito favorevole della lite.
La componente del rischio è dunque indispensabile al fine della distinzione tra i due istituti.
Nel caso di specie, rileva la Corte, l'alea non sussiste, essendo pacifico il risultato della controversia (finalizzata al risarcimento del danno subito dal cliente, investito a seguito di sinistro stradale) ed essendo dubbio solo il quantum.
Altro criterio guida, però, utilizzato dal giudice per valutare la sussistenza o meno di patto di quota lite, è quello della proporzionalità tra il valore della controversia e la quota pattuita a favore dell'avvocato; requisito questo che invece difetta totalmente, essendo la quota del 30% totalmente sproporzionata rispetto all'effettivo impegno prestato dal legale (essendo, appunto, la risoluzione della controversia pressochè pacifica, dunque di non elevata difficoltà di trattazione).
Dopo aver brevemente ripercorso l'evoluzione storica dell'istituto del divieto di patto di quota lite e interpretato la ratio ad esso sottesa ("la possibilità di pattuire tariffe speculative si accompagna quindi all'introduzione di particolari cautele sul piano deontologico, tese a prevenire il rischio di abusi commessi a danno del cliente e a precludere la conclusione di accordi iniqui") la Cassazione esclude che in tale pattuizione siano stati rispettati i canoni della correttezza e della ragionevolezza, non tanto nell'accordo in sè quanto nello stabilire la percentuale dovuta dal cliente all'avvocato. Senza contare che lo stesso sarebbe venuto meno al proprio dovere di lealtà e correttezza nei confronti del cliente, essendo egli straniero, con scarsa conoscenza della lingua italiana e quasi totalmente invalido.
Tutto ciò è stato correttamente espresso nella motivazione del CNF; con la conseguenza che ogni ulteriore richiesta di sindacato, da parte dell'avvocato ricorrente, si tradurrebbe in un indebito riesame nel merito, sottratto al sindacato di legittimità della Cassazione.
Per altri dettagli si rimanda al testo della sentenza qui sotto allegato.
Vedi anche: Il codice deontologico forense 2014
Vai al testo della sentenza 25012/2014