Nuovo no della Cassazione al foglio di via obbligatorio per chi esercita la prostituzione, poiché non si tratta di attività rientrante tra quelle che la legge definisce come "socialmente pericolose".
Già di recente la Suprema Corte si era espressa in questo senso (leggi l'articolo "Cassazione: le "lucciole" non sono socialmente pericolose" ), e con la sentenza n. 302 dell'8 gennaio scorso, è tornata ad ordinare al giudice penale di disapplicare l'atto, nei confronti di una donna condannata per il reato di cui all'art. 2 della l. n. 1423/1956 (inottemperanza al foglio di via obbligatorio, emesso dal questore di Ascoli Piceno), la cui pericolosità era stata ritenuta sussistente in virtù del fatto che la stessa era stata più volte "controllata, mentre esercitava la prostituzione in atteggiamenti definiti ‘adescatori e scandalosi', nonostante la presenza in loco di civili abitazioni".
La condanna a carico della donna veniva confermata in appello, sull'assunto che l'atto amministrativo, non limitandosi a parificare l'esercizio dell'attività di prostituzione ad una condotta in sé pericolosa per la pubblica sicurezza ma evidenziando "specifiche modalità del fatto tali da far ragionevolmente presumere la violazione di norme penali o comunque idonee a sostenere la valutazione di pericolosità" non poteva essere oggetto di disapplicazione.
Gli Ermelliini, invece, sono di avviso contrario. Laddove il foglio di via obbligatorio ex art. 2 della l. n. 1423/1956 sia motivato con esclusivo riferimento all'attività di prostituzione, hanno affermato, infatti, la disapplicazione dello stesso è "doverosa" da parte del giudice penale, giacchè "è del tutto pacifico che l'esercizio della prostituzione in sé non rientra tra le categorie delle persone pericolose ai sensi della vigente normativa".
L'art. 2, ha spiegato la Corte, pone come presupposto dell'ordine di allontanamento non un qualsiasi comportamento "pericoloso per la sicurezza pubblica", ma solo le condotte che siano espressione delle categorie criminologiche riconosciute ai nn. 1, 2 e 3 dell'art. 1 della legge (ovvero: soggetti abitualmente dediti a traffici delittuosi, produttori di proventi derivanti da attività delittuose con cui si sostengono, dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, sicurezza o tranquillità pubblica).
Ed è del tutto evidente, ha ritenuto la prima sezione penale della Cassazione, che l'esercizio della prostituzione, attività che in sé non costituisce reato, non rientri in nessuna delle suddette ipotesi, e, neppure in quella di cui al n. 3, poiché "l'offesa o la messa in pericolo dei beni indicati in detta norma, per essere rilevante ai fini in parola, deve discendere da veri e propri reati ascrivibili al soggetto e non da condotta in sé non costituente reato". Né tanto meno, ha aggiunto la S.C., possono ricadere sul soggetto che si prostituisce "gli eventuali reati o comportamenti pericolosi commessi da terze persone, sia pur occasionati dall'offerta prostitutoria", a meno che la stessa non si concretizzi in condotte di reato. E in ogni caso, ha concluso la Cassazione annullando senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste, anche quando è emesso nell'ambito delle categorie contemplate dalla legge, il provvedimento amministrativo non può essere motivato con indicazione generica della categoria di pericolosità ma deve indicare gli elementi concreti in fatto, riferibili al soggetto interessato, sui quali è fondato.
Cassazione Penale, testo sentenza 8 gennaio 2015, n. 302