di Marina Crisafi - L'imprevedibilità dei comportamenti dell'animale, costituendo una caratteristica ontologica di ogni essere privo di raziocinio, non può costituire un caso fortuito che esonera dalla responsabilità il custode. Così ha deciso la Corte di Cassazione, con sentenza n. 7093 del 9 aprile 2014 scorso, confermando la responsabilità del gestore di un maneggio dichiarata dalla corte d'appello di Venezia per i danni subiti da un'allieva a seguito della caduta da un cavallo imbizzarrito durante una lezione di equitazione.
A nulla sono valse le doglianze dell'uomo sull'erronea applicazione da parte della corte territoriale dell'art. 2052 c.c., per il quale è il proprietario dell'animale a dover rispondere dei danni causati dall'animale di sua proprietà, salva la prova del caso fortuito, piuttosto che la presunzione di cui all'art. 2050 c.c. relativa all'esercizio di attività pericolose.
In particolare, secondo il ricorrente, la corte di merito avrebbe errato ad applicare la presunzione di cui all'art. 2052 c.c. per due ragioni: sia perché la norma fa riferimento ai soli danni causati dall'animale a persone che accidentalmente vengano a contatto con esso, mentre nel caso della scuola di equitazione il contatto tra animale e persona è voluto; sia perché l'equitazione è uno sport e chi accetta di praticarla accetta per ciò solo il rischio di una caduta. Applicando, invece, la presunzione di cui all'art. 2050 c.c., sostiene il gestore ricorrente, per liberarsi dalla propria colpa, avrebbe dovuto provare soltanto di avere adottato tutte le cautele necessarie, prova, peraltro adeguatamente fornita.
Ma i giudici della terza sezione civile non sono d'accordo e ritengono inammissibili i motivi di doglianza.
Innanzitutto, sostengono gli Ermellini, la valutazione dell'equitazione come attività pericolosa non può essere compiuta in astratto ma accertata in base alle modalità con cui viene impartito l'insegnamento, alle caratteristiche degli animali impiegati e alla qualità degli allievi. E sebbene possa adottarsi quale criterio orientativo quello di considerare pericolosa l'attività che consiste nell'impartire lezioni a principianti e fanciulli e non ad esperti, l'accertamento di fatto spetta al giudice di merito ed è sottratto al sindacato di legittimità.
Né sono idonei a cambiare l'inquadramento dato alla materia dalla corte territoriale, gli altri due argomenti addotti dal ricorrente.
Quanto all'accidentalità, infatti, è irrilevante che l'animale venga a contatto col danneggiato accidentalmente o per volontà del proprietario o di terzi, poiché per l'art. 2052 c.c. chi usa l'animale per un proprio interesse (anche non patrimoniale) deve rispondere comunque dei danni da esso causati.
Del pari irrilevante è l'argomento secondo il quale costituendo l'equitazione un'attività sportiva, chi la pratica accetta il rischio di cadute. È vero che lo svolgimento volontario di attività sportiva comporta l'esposizione volontaria dell'atleta al rischio intrinseco connesso alla disciplina praticata, ma l'accettazione del rischio non esclude certamente la responsabilità dell'organizzatore della gara o dell'istruttore sportivo che permane in tutti i casi in cui entrambi abbiano violato le regole poste a salvaguardia dell'incolumità degli allievi (colpa specifica), ovvero le regole di comune prudenza e diligenza (colpa generica).
Pertanto, rimanendo la questione inquadrata nella presunzione di responsabilità ex art. 2052 c.c., la stessa potrebbe essere superata soltanto quando il proprietario (o colui che si serve dell'animale) provi il caso fortuito, inteso quale fattore concreto del tutto estraneo alla sua condotta.
Da ciò consegue che "non può attribuirsi efficacia liberatoria alla semplice prova dell'uso della normale diligenza nella custodia dell'animale stesso o della mansuetudine di questo, essendo irrilevante che il danno sia stato causato da impulsi interni imprevedibili o inevitabili della bestia. L'animale, infatti, sensu caret e l'imprevedibilità dei suoi comportamenti non può per ciò costituire un caso fortuito, costituendo anzi una caratteristica ontologica di ogni essere privo di raziocinio".
In ogni caso, hanno proseguito i giudici del Palazzaccio, la Corte d'appello non sarebbe potuta pervenire a conclusioni diverse nemmeno se avesse applicato l'art. 2050 c.c.
Se per l'orientamento più antico, la disposizione prevedrebbe una mera presunzione di colpa, con la conseguenza che l'esercente l'attività pericolosa si libera da responsabilità fornendo la prova di avere tenuto una condotta diligente senza provare il caso fortuito, la giurisprudenza più recente, tuttavia, ha affermato che la responsabilità di cui all'art. 2050 c.c. ha natura oggettiva: "essa pertanto sussiste sulla base del solo nesso di causalità, a prescindere da qualsiasi rimprovero in termini di colpa che possa essere mosso all'esercente l'attività stessa" (cfr. ex multis, Cass. n. 26516/2009; Cass. n. 8457/2004).
Una presunzione di responsabilità, dunque, che al pari di quella prevista dall'art. 2052 c.c. può essere vinta solo con una prova particolarmente rigorosa.
Per cui, all'esercente l'attività pericolosa non basta, per evitare la condanna, la prova negativa di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge o di comune prudenza, ma occorre quella positiva di aver impiegato ogni cura o misura atta ad impedire l'evento dannoso, di modo che "anche il fatto del danneggiato o del terzo può produrre effetti liberatori solo se per la sua incidenza e rilevanza sia tale da escludere in modo certo il nesso causale tra l'attività pericolosa e l'evento, e non già quando costituisca elemento concorrente nella produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne abbia reso possibile l'insorgenza a causa delle inidoneità delle misure preventive adottate". Cosa non avvenuta nel caso di specie, posto che lo stesso ricorrente ha confermato che l'animale di norma tranquillo, in qualche occasione si era dimostrato nervoso, e non vi è dubbio, ha concluso la S.C. rigettando il ricorso, "che assegnare ad un allievo non esperto un animale potenzialmente nervoso è condotta inidonea alla prevenzione del rischio".
Cassazione Civile, testo sentenza 7093/2015