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Data: 17/04/2011 09:35:00 - Autore: Luisa Foti “È difficile stabilire quando un intervento è senza speranza. Questo non dipende solo dalle condizioni del paziente, ma anche dall'abilita' del chirurgo e dalle tecnologie a disposizione nella struttura”. Con queste parole Pietro Forestieri, il presidente del Collegio italiano dei chirurghi (Cic), esprime tutta la sua perplessità in merito allo stop agli interventi chirurgici giudicati “senza speranza” emerso dalla sentenza della Corte di Cassazione, IV sezione penale. “In chirurgia – continua Forestieri - il fattore umano e tecnologico contano ancora moltissimo, ed è difficile stabilire a priori l'assenza di un qualsiasi possibile beneficio legato a un'operazione. Non solo: quelli che venti anni fa erano interventi senza speranza, oggi per fortuna in molti casi non lo sono più. Dunque in questo modo si rischia di ostacolare i progressi della chirurgia e alimentare la medicina difensiva”. “Anche la scelta del paziente di tentare il tutto per tutto fino all'ultimo, secondo me - conclude il chirurgo - deve essere rispettata. Altrimenti, anche somministrare alimentazione e idratazione artificiale potrebbe essere letto come una violazione, un intervento senza speranza”. Diversamente da quanto espresso dal Collegio italiano dei Chirurghi, lo sportello dei diritti, attraverso la voce del suo presidente Giovanni D'Agata, sottoscrive, in toto, la sentenza della Suprema Corte. “È contrario alle norme deontologiche, - ha dichiarato D'Agata - oltre che inutile, operare i malati terminali che, disposti a tutto, accettano di sottoporsi all'intervento per ottenere un improbabile beneficio alla qualità della vita”. La scelta di operare, secondo D'Agata, “rappresenta una violazione delle regole di prudenza che devono ispirare i professionisti che operano in scienza e coscienza che dovevano astenersi dal persistere in trattamenti da cui non si possa attendere un beneficio per la salute del malato”. “Soltanto la prescrizione – ha concluso D'Agata - ha salvato tre chirurghi dell'ospedale San Giovanni di Roma dopo la doppia condanna per omicidio colposo in sede di merito che avevano operato, provocandone la morte, una donna di 44 anni che aveva solo 6 mesi di vita per un tumore”. |
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