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Data: 16/10/2011 10:30:00 - Autore: Marco Spena L'art. 43 del T.U. sull'immigrazione definisce la discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi specificando il principio dell'uguaglianza davanti alla legge di cui all'art. 3 Cost. E' discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo e l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica. La prima considerazione da fare è che, secondo l'enunciato articolo, non ogni discriminazione risulta essere vietata, ma solo quella che compromette i diritti umani e le libertà fondamentali, così come sancite dalla nostra Costituzione. Naturalmente il reato può essere commesso sia da un cittadino italiano che straniero. Il dolo della condotta discriminatoria va ricercato al di fuori dei casi contemplati dal secondo comma dell'art. 43 T.U., poiché in tali ipotesi il dolo è oggettivo per l'aver posto in essere la condotta descritta dalle circostanze nello stesso 2 comma elencate. Bisogna evidenziare inoltre che, qualora i comportamenti discriminatori siano posti in essere da imprese che godono di benefici da parte dello Stato o delle Regioni, questi possono essere revocati e, nei casi più gravi, il responsabile si vedrà escluso per due anni da ulteriori benefici finanziari o creditizi nonché da eventuali appalti pubblici. A ben vedere il legislatore ha inteso dettare con l'articolo in esame una definizione specifica di atto di discriminazione, in diversi ambiti sociali, politici ed economici. Il primo intervento normativo in questo settore risale alla legge 13 ottobre 1975 n. 654, che ratificava e dava esecuzione alla Convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (New York 7 marzo 1966). Tale normativa era finalizzata a punire, attraverso il sistema penale, le espressioni discriminatorie più violente comunque riconducibili all'illecito penale. Con la legge 25 giugno 1993 n. 205, grazie ad un diverso orientamento, il legislatore ha pensato bene di rendere sanzionabili penalmente la commissione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, anche non violenti fisicamente, La Corte di Cassazione (Cass. pen., sez. III, 5 dicembre 2005, n. 46783) ha evidenziato che “fra le norme di cui alla legge n. 654 del 1975 e al d.lg. n. 286 del 1998 non sussiste alcun rapporto di specialità. Esse tutelano beni giuridici distinti in quanto le prime – frutto di ratifica ed esecuzione della Convenzione di New York del 7 marzo 1966 – mirano ad assicurare pari dignità sociale ai cittadini di ogni Stato ed a reprimere penalmente quei comportamenti che costituiscono espressione di discriminazione razziale o etnica, mentre le seconde, facenti parte della disciplina dell'immigrazione, mirano, da un lato, ad assicurare un meccanismo giurisdizionale idoneo a far cessare, in tempi rapidi, con azione civile, comportamenti di privati o della pubblica amministrazione, tali da produrre detta discriminazione, e, dall'altro, a consentire la possibilità del risarcimento del danno anche non patrimoniale.” In conclusione, l'art. 43 e il successivo art. 44 T.U. che prevede le azioni a tutela nei confronti degli atti di discriminazione, rappresentano il completamento di un percorso normativo volto alla piena tutela e protezione da atti discriminatori, poiché per la prima volta si fa ricorso a strumenti civilistici per la suddetta tutela. |
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