Data: 04/10/2012 09:30:00 - Autore: Barbara LG Sordi
Questo è un buon consiglio da estendere a chiunque ami chattare o twittare: fatelo pure ma fatelo con discrezione. E magari non proprio durante l'orario di lavoro. Ve lo direbbero forse anche quegli impiegati che, proprio per la loro social-dipendenza, si sono ritrovati in una situazione estremamente spiacevole. Chi accusato di diffamazione o calunnia e chi senza posto di lavoro.

Lo sfogo post-lite con i propri colleghi o superiori, ammettiamolo, è assolutamente usanza comune per chiunque, soprattutto per scaricare lo stress delle giornate nere. Dipendente o autonomo non fa nemmeno più tanta differenza, c'è sempre un elemento guastatore pronto da attaccare. Ma come vi dicevo, fatelo a voce tra amici (veri) ed evitate qualsiasi forma di contestazione arricchita da epiteti coloriti via e-mail, social network o skype, perché verba volant sed scripta manent. E non sempre l'articolo 618 del codice penale (sulle rivelazioni del contenuto di corrispondenza, delitto unibile a querela della persona offesa) o l'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori (che vieta il controllo a distanza dei lavoratori) possono proteggere, soprattutto su un terreno minato come Facebook.

Messaggi postati ad un collega, credendolo amico, possono infatti finire sulla scrivania del capo e scattare denunce per reati come calunnia e diffamazione. Oppure, se siete tra quegli sfortunati i cui messaggi privati sono finiti in bacheca, visibili a tutti non dovrete nemmeno avere bisogno del collega-giuda, il capo potrebbe vederli semplicemente visitando il vostro profilo (altro consiglio: evitate di farvi amici su Fb i vostri superiori). Questo è quanto accaduto ad un impiegato padovano, licenziato due anni fa da una ditta con una quarantina di dipendenti. I suoi post ad un collega, inneggiando a quanto "c...ni" o "pezzi di m....a" fossero i suoi ex-capi (nonché soci dell'azienda), sono stati stampati e recapitati ai diretti interessati, che a loro volta hanno chiamato in causa direttamente dei legali. Penalisti, per la precisione, per procedere con l'accusa di diffamazione. E abbiamo visto con Sallusti come queste cosa possano essere spiacevoli. Questo episodio però invita anche ad un'altra riflessione: ma non è possibile tutelarsi anche da colleghi infamoni?

Oltre alla diffamazione a mezzo social attenzione anche all'eccessiva dipendenza dai suddetti. Una dipendente, sempre padovana (coincidenza?), è stata licenziata per eccesso di uso di Fb, con conseguente calo di rendimento. La dipendente si fermava spesso dopo le ore lavorative e andava in ufficio anche il sabato, ci si augura senza timbrare cartellini per avere anche straordinari pagati. L'avvocato che ha seguito l'azienda nella causa, Patrizio Bernardo, ha patteggiato con la social-dipendente affinché si dimettesse con una buonuscita. Ha anche sottolineato come non sia semplice la giurisprudenza in queste cause, e che molto si dovrà elaborare anche dall'esperienza più datata degli statunitensi, in cui casi si questo tipo sono all'ordine del giorno.

Si dovranno forse rivedere anche alcuni termini come segreto epistolare, molto probabilmente. Perché internet pare aver molti meno segreti di quel che si crede. Del resto anche la giurisprudenza in campo lavorativo si deve adattare ai tempi che cambiano e alle tecnologie che si modificano rapidamente. Anche Marina Salomon dodici anni fa rischiò la faccia per aver preteso le dimissioni di una dipendente che con un'e-mail l'aveva offesa, pareva una violazione di privacy intollerabile. E invece le si diede ragione, perché il computer era aziendale, quindi nessuna violazione.

Si prevede quindi un'ondata di nuovi casi e la creazione di nuove figure professionali: i legali social-isti.
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