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Data: 24/10/2012 10:00:00 - Autore: Barbara LG Sordi Cassazione: cafone a chi? Attenzione a chi apostrofate, rischiate una condanna per calunnia! Ma non sempre. Oltre alla frustrazione sempre più frequente di vivere perennemente sotto assedio e sotto pressione, ecco che dovremo aggiunge al lungo elenco di ciò che è permesso dire e fare e ciò che non lo è, la parola "cafone". E dovremo inserirla in entrambe le colonne. Così ha deciso la Cassazione, non sdoppiando un giudizio, bensì in due giudizi distinti. In un caso dare del cafone nello stressante traffico cittadino, è stato giudicato lecito e giustificato; da non intendersi come vera e propria offesa, quanto più come uno sfogo spontaneo in una situazione altamente a rischio di crollo nervoso. In un altro caso invece, apostrofare qualcuno con questo termine, può essere considerato solo ed esclusivamente una calunnia. E' stato così assolto un 30enne di Cagliari che, bloccato al volante della sua auto da un automobilista che aveva deciso di sostare in un passaggio ostruendolo, si era rivolto a quest'ultimo dandogli del "cafone". Il "cafone" per tutta risposta lo aveva trascinato in tribunale per ingiuria. Tralasciando i commenti che spontaneamente sorgono (Uno: "possibile che ci sia gente che non ha nulla di meglio da fare che portare in giudizio qualcuno per avergli dato del "cafone?" Due: "possibile che ci siano soldi da spendere per queste cause? "), il giovane non ha accettato la condanna e ha fatto ricorso in Cassazione. Ottenendo un ribaltamento del giudizio, proprio grazie allo "sdoganamento" del termine cafone, che in una simile situazione è stato giudicato come assolutamente legittimo: " l'ingiuria, se provocata da fatto ingiusto merita tutte le attenuanti senza escludere l'assoluzione". Di diverso avviso invece, sono stati gli ermellini, in un caso di offesa arrecata ad pubblico ufficiale. La signora C. G, una 38 enne che si era precipitata in un parco per soccorrere il padre cardiopatico, si è rifiutata di esibire i suoi documenti ad un poliziotto; dandogli anche del "cafone", "maleducato", e aggiungendo come ciliegina un bel "ti faccio vedere io". Il poliziotto non ha gradito e ha citato la signora in giudizio. Poche parole, che però sono bastate alla Quinta Sezione penale della Cassazione per confermare la condanna per ingiuria e minaccia, con tanto di risarcimento del danno morale all'agente, quantificato in mille euro. A nulla è servito il tentativo della difesa di sottolineare che i fatti si fossero svolti in una circostanza di forte stress emotivo, data la condizione di emergenza del padre (colto da malore dopo aver visto una bimba cadere in malo modo da una bicicletta, ndr). Così come il tentativo di sostenere che il termine "cafone" non poteva essere considerato con valenza offensiva data la situazione pregressa. Due giudizi opposti che però hanno un loro perché, così come ci rammenta Piazza Cavour, che osserva: "in tema di ingiuria, il criterio a cui fare riferimento ai fini della ravvisabilità del reato e' il contenuto della frase pronunciata e il significato che le parole hanno nel linguaggio comune, prescindendo dalle intenzioni inespresse dell'offensore, come pure dalle sensazioni puramente soggettive che la frase può avere provocato nell'offeso". Attenzione allora a soppesare quel che direte in tutte le situazioni "a rischio ingiuria". Anche il vostro portafoglio potrebbe risentirne. |
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