Data: 17/02/2014 13:40:00 - Autore: Il diritto in pillole

Liquidazione equitativa del danno: criteri e applicabilità


"Se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa". Così dispone l'art.1226 del Codice Civile. La stessa norma rinvia direttamente all'art. 2056 per quel che riguarda il concetto di liquidazione del danno, e quindi ai principi di danno emergente e lucro cessante come criteri guida nella determinazione della somma da risarcire, mentre non definisce esplicitamente l'espressione "valutazione equitativa".
Occorre perciò fare riferimento ad altre disposizioni, come segnatamente gli artt. 114 e 115 del
Codice di Procedura Civile per meglio comprendere la portata e l'estensione della categoria di "equità" tirata in ballo dal legislatore, in apparente contrasto con lo spirito generale del nostro ordinamento, che vuole i giudici costantemente vincolati all'astrattezza delle norme giuridiche e solitamente interdetti dall'operare valutazioni soggettive.

L'equità decisoria

Il ricorso all'equità quale criterio decisionale del giudizio non è sempre consentito. Difatti, il nostro ordinamento giuridico sacrifica spesso la "giustizia del caso singolo", sottoposta al potere discrezionale del giudice, al principio di certezza del diritto.
Vi sono, invero, dei casi in cui la fredda e pedissequa applicazione della norma di legge rischierebbe di produrre un'ingiustizia di fatto: è qui che interviene la capacità di discernimento - e in qualche modo di "creazione" - del giudice, che sopperisce alla mancanza di una disposizione specifica o alla non perfetta congruenza di questa al caso concreto, decidendo secondo equità (che è, appunto, sinonimo letterale di giustizia).
Tuttavia, proprio per i principi di certezza sopraindicati, il ricorso alla c.d. "equità decisoria" è possibile soltanto nel caso in cui sia la legge stessa ad attribuire al giudice tale potere, come previsto dall'art. 113 c.p.c. (cosa che avviene in genere nelle cause di minor valore, attribuite alla competenza del giudice di pace), ovvero, nel caso di cui all'art. 114 c.p.c., quando le parti concordi facciano espressa richiesta al giudice di merito di decidere una controversia prescindendo dalla stretta applicazione del diritto e la lite abbia ad oggetto diritti disponibili.

Divieto di equità cerebrina

Elemento comune, nelle fattispecie in cui è ammesso il ricorso all'equità, è il rifiuto della c.d. "equità cerebrina". Nel decidere secondo equità, infatti, il giudice non può farsi guidare da concezioni personali o da mere intuizioni, col rischio di sconfinare nell'arbitrio, ma ha il dovere di ispirarsi a criteri noti e generalmente accolti dall'ordinamento vigente, comportandosi come avrebbe fatto il legislatore se avesse potuto prevedere il caso.
È pacifico, infatti, che il giudizio secondo equità rimanga distinto dall'assoluta discrezionalità, dovendo seguire un iter argomentativo, con l'indicazione delle ragioni del processo logico in base al quale la valutazione è stata adottata, restando così incensurabile in sede di legittimità.

L'equità integrativa

A differenza dell'equità decisoria (definita anche formativa), la "valutazione equitativa del danno" di cui all'art. 1226 c.c. va piuttosto ricondotta nell'alveo dell'art. 115 c.p.c., che in materia di "disponibilità delle prove" prevede che il giudice possa "senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza".
Si parla, perciò, in questo caso di "equità integrativa" (o anche correttiva) che ricorre quando la legge prevede espressamente che il giudice sia chiamato a integrare, appunto, secondo equità, gli elementi di una fattispecie, subordinandola da un lato alla condizione che il pregiudizio sia già stato dimostrato nella sua entità e dall'altro che sia obiettivamente impossibile o notevolmente difficoltoso determinarne con precisione l'ammontare.
Non si tratta, pertanto, è evidente, di un giudizio di equità, bensì di un apprezzamento teso a colmare lacune, altrimenti insuperabili, nell'iter della determinazione dell'equivalente pecuniario del danno.

Certezza dell'an, incertezza del quantum

Com'è chiaro, il punto che differenzia l'equità integrativa da quella decisoria sta soprattutto nel ruolo suppletivo e sussidiario che la prima rispetto alla seconda gioca nel giudizio, intervenendo solo in fase di determinazione del quantum del ristoro dovuto da una parte all'altra, fermo restando che l'esistenza del danno è già stata accertata.
Il presupposto per la valutazione equitativa del danno è, infatti, la certezza della sussistenza dello stesso (an), ricadendo l'incertezza solo sull'entità del pregiudizio (quantum) che può implicare per il danneggiato una assoluta impossibilità o una difficoltà oggettiva di provarne l'esatto ammontare.
In pratica, quando il (presunto) creditore che abbia dimostrato con certezza di aver subìto un danno non riesca a dare prova della precisa quantificazione di questo, per via della peculiarità del fatto o delle condizioni soggettive del danneggiato ad esempio, allora, la legge permette al giudice di servirsi dello strumento dell'equità che diventa, quindi, un criterio di liquidazione residuale, applicato non alla generalità dei casi, ma solo al verificarsi di determinati presupposti.

L'onere della prova

La liquidazione equitativa del danno, ai sensi degli artt. 1226 e 2056 c.c., non esime il danneggiato dal fornire la prova del quantum. L'onere probatorio impone alla parte attrice di conferire concretezza alla specifica pretesa di quantificazione delle componenti della liquidazione dei danni, fornendo o perlomeno allegando al giudice elementi che costituiscano una base di partenza per la conseguente liquidazione ex art. 1226 c.c.

Insindacabilità della valutazione equitativa

L'esercizio del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno, in via equitativa, nonché l'accertamento del relativo presupposto, costituito dall'impossibilità o dalla difficoltà di precisare il quantum, sono insindacabili in sede di legittimità, laddove la decisione sia sorretta da motivazioni immuni da vizi logici o errori di diritto.

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