Data: 11/12/2012 09:27:00 - Autore: Barbara LG Sordi
Laureato in medicina? Professione medico? Ricoverato in ospedale o in cura da colleghi? Se avete risposto di si a tutte e tre le domande (anche se alla terza ci si augura, per ovvi motivi, che siate in pochi ad aver risposto affermativamente), sappiate che nel caso in cui non vi sia stato richiesto il consenso informato i vostri colleghi devono ben sperare che tutto proceda nel migliore dei modi. E cioè con la vostra completa, ed incolume, guarigione. Eh si, perché in caso contrario potrete avvalervi di tal mancanza per chiedere il risarcimento dei danni anche se non c'è colpa medica.

Strano (apparentemente) ma vero. Essere laureato in medicina e professare la professione (lo so, lo so, è cacofonico!) medica non è garanzia per i colleghi che si sia preparati e competenti in materia, in virtù del principio che ciascun medico è specializzato in una precisa branca della medicina. E non è obbligato a conoscere tutto lo scibile in campo medico (anche se viene spontaneo aggiungere che ciò non guasterebbe).

Così un radiologo piemontese, G.S., si è ritrovato a dover subire un intervento nella stessa struttura ospedaliera in cui prestava servizio, l'Ospedale 'Maggiore della Carita' di Novara. Il medico era stato sottoposto ad un intervento in seguito al quale, a causa della terapia cortisonica somministratagli per curare una encefalite post influenzale, aveva riportato lesioni ossee da patologia articolare femorale. Su questo presupposto il radiologo aveva fatto richiesta di risarcimento danni alla struttura sanitaria, proprio sulla base del fatto che non era stato informato dei rischi effettivi della terapia. La richiesta gli era stata però negata dalla Corte d'appello di Torino, nel dicembre 2006, proprio perché il paziente era un medico e che "quindi aveva le cognizioni scientifiche per rendersi conto del trattamento cui veniva sottoposto".

Il caso è quindi arrivato in Cassazione, davanti alla Terza sezione civile che, con sentenza 20984/2012, ha accolto il ricorso del medico, facendo notare che i colleghi "medici hanno presunto che il paziente fosse d'accordo". Presunzione dunque, non realtà dei fatti. Gli Ermellini hanno sottolineato che "il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario. Senza il consenso informato, l'intervento del medico e' al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessita' - sicuramente illecito, anche quando sia nell'interesse del paziente". Aggiungendo inoltre, riguardo al risarcimento dei danni da lesione alla salute, che "in assenza di un consenso consapevolmente prestato occorre l'accertamento che il paziente avrebbe rifiutato quel detrminato intervento o quella terapia se fosse stato adeguatamente informato". Il consenso informato è dunque obbligatorio (o quanto meno fortemente consigliato!) e che "la finalità dell'informazione" su un intervento vale anche nei confronti di un collega medico, "il quale sarà libero di accettare o rifiutare la prestazione medica" con cognizione di causa. Ad essere soggettiva e "personalizzabile" è la forma o la modalità in cui esprimerla: "la qualità del paziente potra' incidere sulle modalita' di informazione che si sostanzia in spiegazioni dettagliate ed adeguate al livello culturale del paziente con l'adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e che, nel caso di paziente medico, potra' essere parametrata alle sue conoscenze scientifiche".

La richiesta di risarcimento danni dovrà ora essere sottoposta a nuova valutazione dalla Corte d'appello di Torino.

Ai medici dunque, oltre a sforzarsi di scrivere con grafia leggibile a noi comuni mortali, consigliamo dunque un bel training in comunicazione interpersonale, che alla luce dei fatti non guasta!


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