|
Data: 20/01/2013 10:00:00 - Autore: Licia Albertazzi Il
potere di autotutela della Pubblica Amministrazione, riconosciuto
definitivamente dalla legge agli articoli 21 ter, 21 quinquies e 21
nonies della legge
241/1990 (legge
sul procedimento amministrativo), consiste nella facoltà
riconosciuta in capo alla stessa di sospendere l'efficacia (anche
temporaneamente) dei suoi atti o di ritirare un atto da essa stessa
emanato (atto valido ed efficace) sia su iniziativa propria che su
richiesta del privato interessato che abbia adeguatamente motivato la
propria richiesta. Ciò al fine di eliminare dall'ordinamento, in
maniera rapida ed efficace, i danni che un atto viziato e
pregiudizievole degli interessi dei terzi sicuramente provocherebbe,
senza che il singolo debba per forza ricorrere alla tutela
giurisdizionale. Ma non solo: l'autotutela amministrativa non opera
soltanto in “negativo” ma può essere anche posta in essere al
fine di mantenere “in vita” atti amministrativi ormai scaduti o
confermare altri atti altrimenti inefficaci (c.d. “conservazione”
e “convalescenza” degli atti amministrativi). Il fatto che la
legge qualifichi tale potere come una facoltà implica di conseguenza
che, in caso di silenzio serbato dalla Pubblica Amministrazione a
seguito di proposta di ritiro di un atto amministrativo inoltrata dal
privato, quest'ultimo non possa promuovere azione
avverso il silenzio
ex art. 2 legge sopra citata. Potrà al contrario essere impugnato
dagli interessati il provvedimento che disponga il ritiro dell'atto
in via di autotutela.
Soggetto attivo titolare di tale potere è la stessa Pubblica Amministrazione che ha provveduto ad emanare l'atto. Gli atti generati in via di autotutela sono recettizi: occorre cioè portare gli stessi a conoscenza delle controparti interessate affinchè guadagnino piena efficacia. A seconda del tipo di vizio dell'atto (formale o sostanziale) e del suo intervento (originario o successivo) la giurisprudenza ha classificato. Ad esempio, si ha annullamento d'ufficio dell'atto viziato in origine prontamente ritirato, oppure decadenza di quelli che al contrario risultano solo successivamente viziati. Giurisprudenza recente (Consiglio di Stato, sentenza n. 6507 del 18 Dicembre 2012) ha tuttavia stabilito che il potere di autotutela deve essere esercitato in presenza di determinati presupposti. In particolare l'impiego di questa facoltà (ad esempio per mezzo di una sospensione temporanea dell'efficacia) deve essere giustificato dalla necessità sorta in capo alla pubblica amministrazione di effettuare approfondita attività istruttoria, consentire l'esperimento di ispezioni e verifiche funzionali ad assumere la decisione finale di mantenimento o di eliminazione dell'atto dall'ordinamento. Stabilisce il Supremo Consiglio che, al fine della sua attivazione, debbano sussistere “gravi ragioni, cioè circostanze tali da rendere quanto meno inopportuno che un provvedimento emanato, non inficiato da vizi macroscopici o facilmente riconoscibili, continui a svolgere i propri effetti per evitare che questi possano definitivamente alterare e compromettere il substrato fattuale sul quale incide”. L'impiego del termine “gravi motivi” implica inoltre il riferimento ad altri fondamentali principi del nostro ordinamento regolanti l'azione amministrativa: l'adeguatezza e la proporzionalità della sua opera. Un atto è adeguato se idoneo al perseguimento dell'obiettivo preposto; è proporzionale se, raggiungendo lo scopo, incide il meno possibile sulla sfera dei privati, o comunque comporti un sacrificio dei singoli ancorato alle esigenze del caso concreto. Senza tralasciare, infine, l'obbligo generale in capo alla Pubblica Amministrazione di motivare in modo succinto i propri atti, siano essi di sospensione, mantenimento o di ritiro. |
|