Data: 20/02/2013 09:00:00 - Autore: L.S.
La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con sentenza n. 3912 del 18 febbraio 2013, ha affermato che per la legittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore che patteggia la pena in relazione ad un reato di aggressione, è necessario comunque che l'azienda dimostri il venir meno del rapporto fiduciario con il lavoratore.
La Suprema Corte ha precisato che “Premesso che la sentenza pronunciata a norma dell'art. 444 del codice di procedura penale  – che disciplina l'applicazione della pena su richiesta dell'imputato – non è tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna, è pur vero che, nell'evoluzione della interpretazione della norma si è affermato tuttavia che, ove una disposizione del contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato come fatto idoneo a consentire il licenziamento senza preavviso, il giudice di merito può, nell'interpretare la volontà delle parti collettive espressa nella clausola contrattuale, ritenere che gli agenti contrattuali nell'usare l'espressione “sentenza di condanna”, si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza c.d. “di patteggiamento” ex art. 444 codice procedura penale atteso che in tal caso l'imputato non nega la propria responsabilità, ma esonera l'accusa dall'onere della relativa prova in cambio di una riduzione della pena.”.
Tuttavia – si legge nella sentenza dei giudici di legittimità - tale equiparazione non esonera dall'ulteriore indagine della idoneità dei fatti a ledere irrimediabilmente il vincolo con il lavoratore, in particolare nel caso in cui, come nel caso di specie, il licenziamento sia intimato con riguardo ad una previsione collettiva, che fa si riferimento alla “condanna passata in giudicato” ma condizione comunque l'irrogazione della massima sanzione alla circostanza che “i fatti costituenti reato possano assumere rilievo ai fini della lesione del rapporto fiduciario, nell'ipotesi in cui la loro gravità in relazione alla natura del rapporto, alla mansione, al grado di affidamento, sia tale da far ritenere il lavoratore professionalmente inidoneo alla prosecuzione del rapporto.” 
Respinto, quindi, il ricorso dell'azienda la quale sosteneva che ai fini del licenziamento disciplinare la sentenza di patteggiamento è pienamente equiparata ad una sentenza di condanna in quanto i fatti addebitati al dipendente erano immodificabilmente cristallizzati nella sentenza di patteggiamento e dovevano essere considerati provati ai fini della valutazione della giusta causa di recesso secondo la previsione del CCNL. In questo caso, secondo la Corte di Cassazione, non si può prescindere da una nuova valutazione dei fatti oggetto del procedimento penale conclusosi con la sentenza di patteggiamento, nella diversa prospettiva che, tenuto conto delle mansioni del lavoratore e del grado di affidamento in lui riposto, per la loro gravità, non consentano una prosecuzione, neppure provvisoria del rapporto di lavoro.
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