|
Data: 19/03/2013 11:10:00 - Autore: Avv. Francesca Cosentino
Avv. Francesca Cosentino - Com'è noto ai più,
con la sentenza n.272 del 24 ottobre-6 dicembre 2012, la Corte Costituzionale
dichiara illegittimo l'art.5 del decreto legislativo 4 marzo 2010,n.28
(attuazione dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009,n.69,in materia di
mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e
commerciali) per eccesso di delega (violazione degli artt. 76 e 77 Cost.) nella
parte in cui prevede l'obbligatorietà della mediazione;adducendo che l'opzione a
favore del modello obbligatorio non può trovare fondamento nella disciplina
europea e nella legge delega, né nella ratio ispiratrice dell'istituto, perché:
-
la disciplina dell'UE - al cui rispetto e coerenza si richiamano la
legge delega (art. 60, co 2 e 3, lett. c, L. n.69/09) ed il D.Lvo n. 28/10
(preambolo)- demanda ai singoli Stati membri la scelta del modello, purché non
sia impedito “alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema
giudiziario”;così l'art.5, co 2,della Direttiva 2008/52/ CE del
Parlamento europeo e del Consiglio in data 21 maggio 2008, avente efficacia
vincolante per gli Stati membri, che alla condizione statuisce che resta
impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione
obbligatorio; la sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione europea in data
18 marzo 2010, Sezione quarta, pronunciata nelle cause riunite C-317/08,
C-318/08, C-319/08, C-320/08 si ispira al principio.
Solo le Risoluzioni del Parlamento europeo in data 25 ottobre 2011
(2011/2117-INI) e in data del 13 settembre 2011 (2011/2026-INI),però prive di
efficacia vincolante, contrastano espressamente una forma di mediazione
intesa come elemento obbligatorio della procedura giudiziaria.
-
la legge-delega non prevede tra i principi e criteri direttivi di
cui all'art.60, co 3, l'obbligatorietà della mediazione; né la sottintende nel
disposto “senza precludere l'accesso alla giustizia” di cui alla lett .a) co
3, cit. art.,poiché di significato generale. Semmai, offre una chiara
indicazione verso il modello facoltativo allorché vincola il Governo a
«prevedere il dovere dell'avvocato di informare il cliente, prima
dell'instaurazione del giudizio, della possibilità (non dell'obbligo, dunque,
nda) di avvalersi dell'istituto della conciliazione nonché di ricorrere agli
organismi di conciliazione» (art.60, co 3, lett.n).
-
la ratio ispiratrice dell'istituto, comune alla norma europea e alla
legge delega, è quella di individuare forme alternative ed agili per la
soluzione di controversie su diritti disponibili. Ciò posto,si
vuole brevemente osservare, senza pretese di bontà ed esaustività, se la
mediazione tributaria obbligatoria sia illegittima sotto il rilevato profilo
dell'eccesso di delega e/o sotto profili riflessi o, viceversa, se sia fondata
su valide ragioni interne al sistema tributario. Per il primo aspetto, va detto
tout court che l'art.17 bis, D.Lvo n. 546/92 tecnicamente non è abrogabile per
eccesso di delega perché per l'istituto tributario, data l'assenza di una legge
delega al Governo per l'adozione di uno o più decreti legislativi, non si pone a
monte l'obbligo di osservare principi e criteri direttivi. La norma è stato
introdotta,infatti,nel T.U. sul contenzioso tributario dall'art.39, co 9 del
Decreto Legge n.98 del 2011, convertito nella legge n.111,15 luglio 2011,con il
disposto:"Dopo l'articolo 17 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n.546,
e' inserito il seguente articolo:..".Quindi,la valutazione deve riguardare i
profili d'illegittimità riflessi dal carattere obbligatorio dell'istituto e
dalla strutturazione della relativa procedura come anticipazione del contenuto
del ricorso giudiziale e condizione di ammissibilità dello stesso. Sotto
l'angolatura, la mediazione tributaria -più gravosa dell'istituto civile-
delinea rispetto a questo maggiore incompatibilità, in più punti, con il diritto
comunitario e con il diritto costituzionale. Quanto alla Non Compatibilità con
il Diritto Comunitario L'istituto contrasta con la direttiva europea sulla
mediazione civile e commerciale, che essendo l'unica vigente in Europa vale pure
per la mediazione tributaria, per due ordini di ragioni:
-
Non corrisponde al modello tipico di mediazione, perché
non è alternativo e a basso costo, riguarda diritti non disponibili e
soprattutto non prevede l'intervento di un "organo mediatore" ispirato
alla terzietà ed imparzialità; la definizione della lite è affidata alla
Direzione Provinciale o Regionale dell'Agenzia delle Entrate che ha emesso
l'atto, laddove la normativa europea dispone "l'assistenza del
mediatore" per raggiungere un accordo per la risoluzione della controversia
(v. 17° considerando ed art. 3, lett. a), cit. Direttiva) e, lo individua in
"qualunque terzo cui è chiesto di condurre la mediazione in modo in modo
efficace, imparziale e competente" (v. art.3, lett b) ed il 17°
considerando cit. Direttiva).
-
Preclude l'esercizio del diritto di accesso al sistema
giudiziario (v. art.5, co 2), in quanto, contrariamente alla
mediazione civile,commina per il mancato previo esperimento (c.d.
giurisdizione condizionata) della procedura di mediazione la grave sanzione
dell'inammissibilità del ricorso, dichiarabile d'ufficio in qualunque stato e
grado del giudizio. Quanto alla Non Compatibilità con il
Diritto Costituzionale L'obbligatorietà solleva seri dubbi di legittimità
costituzionale verso diritti fondamentali:
-
Il diritto di agire in giudizio garantito dall'art. 24, co
1, Cost. a "tutti" e, più specificamente,il diritto alla tutela
giurisdizionale contro gli atti della Pubblica Amministrazione,
incondizionatamente garantita dall'art.113,Cost. risultano compressi dalla
giurisdizione condizionata;la sanzione dell'inammissi- bilità è così
sproporzionata rispetto all'esigenza deflattiva da assumere il carattere di
privilegio ingiustificato, soprattutto se a fronte della susseguente
definitività della pretesa tributaria.
In ogni caso, l'esercizio del diritto di azione è reso eccessivamente
gravoso dal rischio della condanna alle spese della procedura di mediazione
(pari al 50% delle spese di giudizio), ove il giudice non le compensi
in tutto o in parte, ritenendo fondati i motivi che hanno indotto il soccombente
a disattendere la proposta di mediazione. La responsabilità totale o parziale
delle spese di giudizio può costituire un forte dissuasivo dal ricorso alla
giustizia tributaria, come dimostrerebbe, stando ai dati forniti dall'Agenzia
delle Entrate (v. Il Sole 24 Ore, 13.02.2013), l'alto indice di definizione dei
reclami, pari ad oltre il 49,8%.
-
Il diritto di difesa, ex art. 24, co 2, Cost.
"inviolabile in ogni stato e grado del procedimento", viene
mortificato nella ‘discovery',dovendo il privato anticipare e provare in fase
amministrativa tutte le difese di fatto e di diritto e motivare il rigetto
della proposta con pronostico di fondatezza - pena l'aggravio delle spese-;
nell'integrazione dei motivi e dei relativi altri mezzi di prova, consentita
solo, ex art.24, co 2, D.Lvo n. 546/92, se l'integrazione "sia resa
necessaria dal deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre
parti o per ordine della commissione"; nella pronta proposizione del
ricorso giurisdizionale, differibile sempre di 90 gg + 30 o sino a 9 mesi e
mezzo se il reclamo sia preceduto dalla proposta di accertamento con adesione
(90 gg di sospensione del termine); nell'azionabilità di una qualche tutela
cautelare giurisdizionale.
E, viene mortificato perfino in fase amministrativa, non essendo
disposto in caso di successo il rimborso delle spese di mediazione obbligatoria,
né, contrariamente all'istituto civile e commerciale, il diritto al credito
d'imposta.
-
Il diritto al giusto processo (art.111, co 1 e 2,
Cost.) è violato, perché: a) il contradditorio tra le parti non si
svolge in condizioni di parità; l'ufficio è agevolato con l'anticipata ed
esaustiva conoscenza delle contestazioni e con la possibilità di utilizzare le
dichiarazioni e le informazioni acquisite in fase conciliativa;per cui, sotto
l'egida degli interessi chiamato a realizzare potrebbe piegare ‘con ragionata
consapevolezza' la tecnica di difesa alle sue esigenze; b) la proposta
conciliativa del contribuente o dell'ufficio potrà ripercuotersi
sull'imparzialità del giudice, sicché gli accordi proposti dal contribuente al
mero scopo di tentare un vantaggioso sconto sulla pretesa e sulla pena (al
40%) o dall'ufficio per mero protocollo potrebbero, invece, diventare elementi
di valutazione per la decisione finale. Orbene, la ratio del
reclamo e della mediazione, dichiaratamente voluti "al fine di assicurare una
maggiore efficienza del sistema della giustizia tributaria"(D.L.
n.98/2011),vorrebbe giustificare le predette ‘singolarità' costituzionali e
comunitari con la preminente esigenza di alleggerire il giudice tributario per
le questioni di modesto valore economico – non eccedenti il limite di €
20.000,00; ma la giustificazione si rivela fallace allorché si osservi: 1) che
il valore della controversia va determinato al netto degli interessi e delle
eventuali sanzioni, per cui è ben possibile che la somma pretesa dall'Ufficio
ecceda anche di molto il limite di 20.000 euro; 2) che per le liti
effettivamente “minori”, inerenti tutti gli atti impositivi degli Enti Locali
(Tarsu/Tia/Tares, Ici/Imu, Tosap), non è prevista la mediazione; 3) che esistono
altri strumenti deflattivi del contenzioso, il cui mero potenziamento avrebbe
facilmente realizzato lo scopo,senza incidere sul processo tributario e sui
principi costituzionali che presiedono al suo giusto svolgimento; 4) che secondo
l'Agenzia sarebbe ora opportuno alzare il tetto a 50.000,00 euro.
Quanto al principio di indisponibilità del tributo,cristallizzato nell'art.23
Cost"Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non
in base alla legge",direi che, in teoria, esso non è violato
dall'obbligatorietà e struttura della mediazione. Il principio di
indisponibilità vieta, infatti,la discrezionalità amministrativa sull'an e sul
quantum debeatur della prestazione e, qui, l'ufficio nell'esercizio del potere
transattivo perseguirebbe l'interesse pubblico all'effettivo incasso di imposte
commisurate alla forza economica del contribuente e,in ogni caso, si tratterebbe
di crediti solo accertati e ancora contestabili davanti la Commissione
Tributaria. Di fatto, però, le barriere al diritto di difesa e l'eventuale poca
proporzionalità e ragionevolezza nell'azione della P.A. potrebbero inferire un
certo colpo al grado di attualità ed effettività del suddetto principio. Non
resta allora che capire se, a livello sistematico, la mediazione sia veramente
fondamentale allo scopo deflattivo e, dunque, fortemente pregnante rispetto agli
strumenti esistenti. Quanto all'Essenzialità rispetto agli altri istituti
deflattivi L'Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 9 /E del 19 marzo
2012,elogia i tratti distintivi della mediazione nel fatto che, rispetto
all'autotutela,obbliga il privato a presentare il reclamo e l'ufficio a
provvedere al suo esame sistematico e all'espresso riscontro; rispetto
all'accertamento con adesione,“non è limitata agli avvisi di accertamento” e
vincola l'ufficio a tre criteri specifici di giudizio,"eventuale incertezza
delle questioni controverse, grado di sostenibilità della pretesa e principio di
economicità dell'azione amministrativa" (v. art.17 bis,co 8,D.Lvo
n.546/92);cioè, assenza di orientamento giurisprudenziale, grado di
dimostrabilità della pretesa tributaria in giudizio e fondatezza delle ragioni
dell'istante, ottimizzazione dei procedimenti. I suddetti motivi non sono idonei
a giustificare un'affermazione di essenzialità dell'istituto e della sua
articolazione procedurale nell'ambito del sistema tributario. Il
concordato,invero, è un mezzo circoscritto, non concernente tutti gli atti
emanati dall'Agenzia delle Entrate, ma non incontra il limite di valore e
consente alle parti su iniziativa dell'ufficio o del privato -previa sospensione
del termine d'impugnazione- di raggiungere un “accordo”, basato sul riesame
critico dell'accertamento tributario e sulla riduzione delle sanzioni. Se di
esito negativo, il privato può adire autonomamente la via giurisdizionale senza
maggiori costi. L'autotutela è un rimedio conveniente,non limitato a tipologie
di atti e di valore, esperibile anche avverso atti definitivi per inutile
decorso del termine d'impugnazione e, secondo la lettura combinata di
significative pronunce (cfr.Cass.Civ.SS.UU.,6.2.2009,n.2870;20.02.2006,n.
3608)che escludono l'impugnabilità del diniego di autotutela di atto divenuto
definitivo, esperibile persino dopo la formazione del giudicato ove
sopravvengano elementi di illegittimità e/o infondatezza non dedotti nel
giudizio che possano ben configurare una doverosità di eliminazione e,
quindi,pure l'impugnabilità del diniego. E, soprattutto, non lascia alla P.A.
“spazio alla mera discrezionalità” (cfr. Cass. Civ. Sez. III,20.04.2012, n.
6283), poiché il suo esercizio incontra un limite esterno nei principi di buon
andamento, imparzialità ed economicità dell'azione amministrativa fissati
dall'art.97 Cost. e, ovvio, nei principi della riserva di legge e di capacità
contributiva fissati dagli artt. 23 e 53 Cost. Il suo esercizio, dunque, è
guidato dai criteri esplicitati nel comma 8,art.17 bis,tanto che l'arbitrarietà
nell'autotutela può determinare la responsabilità da danno da mancato
annullamento. In pratica, il contribuente invita motivatamente l'ufficio o
l'ente che ha emesso l'atto illegittimo e/o infondato a rimediare all'errore di
diritto e/o di fatto mediante la sua eliminazione totale o parziale. La p.a.,
compiute le necessarie verifiche,deve provvedere nel rispetto delle regole di
cui all'art.97 Cost. anche “in tempi ragionevoli” (C.Civ.Sez.III,n.6283/12) a
non creare “un danno ingiusto”, dunque non pregiudizievoli del termine utile per
impugnare il provvedimento. Nel caso di diniego dell'annullamento in
autotutela,il contribuente potrà opporre direttamente l'atto impositivo se non
ancora definitivo oppure sottoporre il diniego al sindacato del giudice
tributario sul “corretto esercizio del potere discrezionale
dell'amministrazione, oltre che (sul)l'esistenza stessa dell'obbligazione
tributaria”(v. per tutte, Cass. Civ. SS. UU., 27.03.2007,n.7388). Alla luce
delle superiori considerazioni, sarebbe stato sufficiente al fine deflattivo e
conforme ai parametri costituzionali rendere obbligatoria l'autotutela
amministrativa - istanza e riscontro - per le liti di valore non superiore ad €
20.000,00, senza esclusione di tipologie di atti - con sospensione del termine
per ricorrere; in caso di rigetto o di accoglimento parziale, consentire al
contribuente il consueto esperimento della tutela giudiziaria contro l'atto
impositivo o parte di esso, senza illegittime sovrapposizioni di sorta col
processo tributario, né aumento dei costi. Tale scelta avrebbe ben soddisfatto
pure l'esigenza tanto decantata dalla circolare 9/E-2012 di “consentire
all'amministrazione la possibilità di esaminare preventivamente le doglianze
degli utenti al fine di accertarne l'eventuale fondatezza, evitando lunghe e
dispendiose procedure giudiziarie”(Corte Cost. sentenza n.15/91). In
conclusione, vagliate la “ortodossia” della mediazione tributaria obbligatoria
ai principi fondamentali e al sistema tributario e la riconosciuta legittimità
della sola mediazione facoltativa (sent. 279/12, C.Cost.) non si può che
concludere per l'auspicabile declaratoria di illegittimità costituzionale
dell'art.17 bis, D.Lvo n.546/92 ed il potenziamento di un istituto deflattivo
coerente ai cardini costituzionali,quale l'autotutela amministrativa. Del resto,
i dati forniti dall'Agenzia (Il Sole 24 Ore) fugano i dubbi: se l'indice di
rigetto delle istanze è pari al 29,8% e l'indice di riduzione dei ricorsi
giurisdizionali è di circa il 30 %, è chiaro che nella totalità dei casi il
contribuente preferisce accettare, anche obtorto collo, la definizione del
reclamo anziché adire la tutela giurisdizionale ai presupposti descritti.
Avv. Francesca Cosentino
Foro di Catania
|
-->
|