Data: 08/05/2013 09:30:00 - Autore: L.S.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 10338 del 3 maggio 2013, ha affermato la legittimità del trasferimento in altra sede lavorativa del dipendente invalido (per effetto di un infortunio sul lavoro lo stesso aveva subito la perdita di gran parte delle dita della mano destra con grave limitazione funzionale delle restanti dita) pur senza il consenso dell'interessato.
La Suprema Corte, precisando che il diritto del lavoratore a non essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso non può prescindere dall'accertamento della gravità della disabilità che è caratteristica il cui accertamento è demandato alla Commissione costituita presso la ASL, ha evidenziato che “l'inamovibilità è connessa alla gravità dell'handicap del lavoratore e si giustifica per la particolare gravosità che lo spostamento, imposto, potrebbe generare in un lavoratore proprio a cagione della grave incidenza del suo handicap con riguardo, ad esempio, alla sua autonomia, alla necessità di avvalersi di particolari presidi sanitari non reperibili in ogni sede ovvero o di ausili da parte di terzi che un trasferimento imposto potrebbe compromettere.”.

La Corte d'appello aveva ritenuto che il lavoratore, che aveva ottenuto, per effetto dell'infortunio sul lavoro, il riconoscimento del 40% di invalidità, pur avviato al lavoro come invalido ai sensi della legge n. 482/1968, non rientrava nella categoria prevista dall'art. 3 della legge n. 104/1992 che a norma dell'art. 33 della stessa legge non consente al datore di lavoro di trasferire il dipendente senza il suo consenso, rilevando che l'art. 3 della L. 104 del 1992 riconosce la sussistenza di handicap rilevante ai fini dell'applicazione della legge stessa, non a qualsiasi invalidità, ma solo a quelle che comportano una difficoltà fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, "che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione".

“Ne consegue che lo stato di invalidità che giustifica l'avviamento al lavoro ai sensi della L. n. 482 del 1968 non è necessariamente equiparabile alla definizione di "handicap" della legge n. 104/1992 la quale prevede, tra l'altro, una specifica procedura per il suo accertamento affidata a commissioni mediche costituite presso le unità sanitarie locali ai sensi dell'art.1 della L. 295 del 1990 integrate da un operatore sociale e da un esperto (art. 4 della l. n. 104/1992).”

Precisava quindi la Corte che l'art. 33 subordina il trasferimento al consenso del lavoratore solo in caso di handicap che determina "una situazione di gravità" e poiché l'handicap accertato non presentava queste caratteristiche la disposizione non trova applicazione.
I Giudici di legittimità, respingendo il ricorso del lavoratore e confermando la sentenza del giudice d'Appello, hanno altresì sottolineato che “sul piano sistematico, come già affermato con condivisa motivazione dalle sezioni unite della Corte (cfr Cass. s.u. n. 16102/2009 in motivazione), la configurazione giuridica delle posizioni soggettive riconosciute dalla norma, e i limiti del relativo esercizio all'interno del rapporto di lavoro, devono essere individuati alla luce dei numerosi interventi della Corte costituzionale che - collocando le agevolazioni in esame all'interno di un'ampia sfera di applicazione della L. n. 104 del 1992, diretta ad assicurare, in termini quanto più possibile soddisfacenti, la tutela dei soggetti con disabilità - destinata a incidere sul settore sanitario e assistenziale, sulla formazione professionale, sulle condizioni di lavoro, sull'integrazione scolastica - ha precisato la discrezionalità del legislatore nell'individuale te diverse misure operative finalizzate a garantire la condizione del portatore di handicap mediante l'interrelazione e l'integrazione dei valori espressi dal disegno costituzionale.


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