Data: 02/07/2013 11:20:00 - Autore: L.S.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 16413 del 28 giugno 2013, ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale del lavoratore privato, di fatto, di ogni compito lavorativo restando così pregiudicato nella sua identità culturale e professionale.
Nel caso preso in esame dalla Suprema Corte, una società aveva proposto ricorso avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello, confermando la decisione del giudice di primo grado, aveva riconosciuto la sussistenza sia del danno biologico che di quello morale nonché di quello esistenziale a favore di un lavoratore trasferito in un'altra sede di lavoro, privato, di fatto, di ogni compito lavorativo e posto in una condizione di isolamento e svilimento della sua dignità di uomo e lavoratore causativa dello stato depressivo in cui era caduto.
La Suprema Corte, precisando che "con riferimento alla quantificazione del danno, non risulta alcun corrispondente motivo di appello (si rileva dalla sentenza impugnata che le doglianze dell’appellante afferivano alla sola valutazione medico-legale della misura del danno biologico)", ha affermato che "non si riscontra alcuna duplicazione laddove le voci risarcitrorie hanno distintamente riguardato (...) il danno biologico (inteso come mera lesione della integrità psicofisica), il danno morale (inteso come sofferenza interiore temporanea causata dalla commissione di un fatto illecito), il danno esistenziale (inteso come umiliazione delle capacità ed attitudini lavorative con pregiudizio all’immagine del dipendente sul luogo di lavoro)."
I giudici di legittimità ricordano inoltre che "in tema di liquidazione del danno non patrimoniale, al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato ovvero sia stato erroneamente sottostimato, rileva non il nome assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall’attore (biologico, morale, esistenziale) ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice. Si ha pertanto duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia stato liquidato due volte, sebbene con l’uso di nomi diversi. "
Non accolta, dunque, la tesi della Società secondo la quale la Corte di merito non aveva attribuito rilevanza alla circostanza che lo stato di parziale inattività non era addebitabile a una scelta volontaria della società, bensì piuttosto l'effetto di ragioni tecnico produttive nell'ambito di una manovra tesa a consentire la salvaguardia di alcuni profili professionali.


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