Data: 07/07/2013 14:40:00 - Autore: L.S.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 16507 del 2 luglio 2013, ha stabilito che non è corretto assegnare, sulla base della contrattazione collettiva, all'assenza ingiustificata del lavoratore - che non rientra in servizio al termine del periodo d'aspettativa - il valore di manifestazione per facta concludentia di rassegnare le dimissioni.
La Suprema Corte, nell'esaminare il caso, richiama un risalente contrasto nella giurisprudenza segnato "per un verso dalla sentenza n. 2605 del 12 marzo 1987 secondo cui il recesso dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato può attuarsi unicamente nella duplice forma del licenziamento intimato dal datore di lavoro ovvero delle dimissioni rassegnate dal lavoratore; pertanto, mentre è possibile che le parti contraenti, collettive od individuali, assegnino a determinati comportamenti di uno dei soggetti del rapporto il significato e l'efficacia dell'atto unilaterale di recesso ed, in particolare per il lavoratore, delle dimissioni, deve invece escludersi la possibilità di introdurre un terzo genere di recesso con la previsione di un comportamento, giudicato significativo dell'intenzione di recedere, che sia svincolato dall'effettiva volontà della parte e che non ammetta la possibilità di prova contraria, giacché in tal caso il patto costituirebbe in realtà un'inammissibile ed invalida clausola risolutiva espressa del rapporto. Dall'altro dalla decisione di cui alla sentenza n. 5776 del 10 giugno 1998 per la quale quando il contratto collettivo definisce l'assenza del lavoratore prolungata oltre i tre giorni e non giustificata quale dimissioni, l'assenza - medesima assume il valore giuridico di un atto di dimissioni, in quanto considerata espressione della volontà del lavoratore di recedere dal rapporto, per convenzionale ed esplicita disposizione delle parti in tal senso, che ravvisano le dimissioni come intervenute per fatti concludenti."
Dando continuità giuridica al primo dei citati orientamenti, il Collegio ha altresì precisato che "alle parti non è consentito di attribuire a determinati comportamenti del lavoratore il valore ed il significato negoziale di manifestazione implicita o per facta concludentia della volontà di dimettersi, senza possibilità di prova contraria. In tale ipotesi, invero, non si tratterebbe più di dimissioni manifestate per facta concludentia - le quali presuppongono una volontà effettiva di dimettersi e la manifestazione di essa seppure in forma diversa dalla dichiarazione esplicita - ma della attribuzion convenzionale di un determinato effetto giuridico - la cessazione del rapporto - ad un determinato comportamento. Tanto le parti collettive non possono stabilire, atteso che il rapporto di lavoro può, in base al nostro ordinamento giuridico, estinguersi esclusivamente per le cause a tal fine previste dalla legge e non è permesso alle parti introdurre altre cause di estinzione del rapporto. Diversamente, tutta la disciplina legislativa limitativa dei licenziamenti, che ha progressivamente allontanato il rapporto di lavoro dagli ordinari principi sull'estinzione dei rapporti obbligatori, sarebbe inutiliter data."
Del resto - precisano i giudici di legittimità - l'assenza ingiustificata e protratta oltre un certo termine può essere assunta, in sede di contrattazione collettiva o individuale del rapporto di lavoro privato, quale causa di scioglimento del rapporto di lavoro, soltanto considerandola quale sanzione disciplinare, necessariamente preceduta dalle garanzie procedimentali previste nei primi tre commi dell'art. 7 L. 20 maggio 1970 n. 300.
Cassata dunque la sentenza dei giudici di merito che avevano rigettato la domanda di una lavoratrice proposta nei confronti della Società datrice di lavoro avente ad oggetto l'impugnazione della comunicazione con la quale la Società le rendeva noto che, non essendo rientrata in servizio al termine del periodo d'aspettativa, il rapporto di lavoro s'intendeva risolto per dimissioni ai sensi degli artt. 34 e 75 del CCNL del 2003.


Tutte le notizie