Data: 17/07/2013 16:40:00 - Autore: Avv. Riccardo Carlone
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Gli artt. 2563 e ss. c.c. La tutela prevista dall'art. 2564 c.c. La disciplina prevista dal D.Lgs. 10-2-2005 n. 30 (C.P.I.). La tutela della funzione distintiva nell'ambito della disciplina della concorrenza sleale: (art. 2598 n. 1 c.c.). 

I segni distintivi dell'impresa e la loro tutela
(Avv. Riccardo Carlone)
 
Come noto i segni distintivi svolgono la funzione di identificare l'attività ed i prodotti di un imprenditore.

Costituiscono beni immateriali su cui l'imprenditore ha un diritto reale, caratterizzato dall'immediatezza (diritto su un bene) e dall'assolutezza.

I segni distintivi sono tipicamente disciplinati nel Codice nella “Ditta” (che contraddistingue un'impresa), nell'”Insegna” (che individua l'azienda di per sé così come, spesso, anche i locali dove si svolge l'attività d'impresa) e nel “Marchio” (che caratterizza i prodotti di un'impresa). 
Partendo proprio dalla definizione codicistica, in particolare per la “Ditta” è pacifico come questa riconduca al “nome commerciale” dell'imprenditore.

Sulla "libertà" di scelta della ditta si deve osservare che la disposizione dell'art. 2563 c.c. non esclude che la ditta sia a formazione libera, pur nel rispetto di determinati limiti giuridici, e cioè: osservanza delle prescrizioni enunciate in tale articolo; rispetto dei principi generali concernenti i segni distintivi e consistenti nella verità, nella novità e nella liceità del segno sotto il profilo dell'ordine pubblico e del buon costume.

L'insegna è invece disciplinata dall'art. 2568 c.c., che richiamando proprio l'art. 2563 c.c., prevede come l'utilizzo di tale strumento goda del diritto di uso esclusivo al pari della ditta.

All'insegna, quindi, si debbono applicare i principi normativi base della ditta e del marchio.

Pertanto anche questo segno finalizzato a contraddistinguere l'imprenditore dovrà essere veritiero ed originale. 
La disciplina di tutela di tali “segni distintivi” trova, nelle disposizioni codicistiche, disciplina nell'art. 2564 c.c. che statuisce come “Quando la ditta è uguale o simile a quella usata da altro imprenditore e può creare confusione per l'oggetto dell'impresa e per il luogo in cui questa è esercitata, deve essere integrata o modificata con indicazioni idonee a differenziarla. Per le imprese commerciali l'obbligo dell'integrazione o modificazione spetta a chi ha iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore.” con principi ulteriormente estendibili anche alla tutela dei segni distintivi delle società commerciali ex secondo comma art. 2567 c.c.

In definitiva, nel caso possa determinarsi confusione fra segni distintivi (siano essi ditta, insegna o marchi) appartenenti a singoli imprenditori o a società commerciali, sovviene la possibilità di applicazione della tutela di cui all'art. 2564 c.c. con preminenza dei diritti dell'impresa commerciale che per prima ha iscritto gli stessi nel registro delle imprese o, comunque, dimostri di aver iniziato di fatto ad utilizzarli in tempo anteriore[1].
 Per l'applicabilità dell'art. 2564 c.c. non occorre, inoltre, che una confusione tra i due segni distintivi si sia effettivamente verificata, ma è sufficiente che essa possa verificarsi[2], pur richiedendosi, in ogni caso, che ambedue le imprese interessate operino nello stesso ambito imprenditoriale[3] e territoriale (secondo la definizione di “localizzazione commerciale” oramai in uso con l'estensione dei limiti commerciali permessi dalle nuove tecnologie)[4].

Al fine di valutare, poi, la confondibilità o meno di segni distintivi operanti sul mercato il Giudice del merito, dopo aver accertato analiticamente gli elementi di identità, somiglianza o diversità che essi presentano, dovrà effettuare un giudizio finale “per sintesi”, quale è quello tipico normalmente svolto dal destinatario della funzione distintiva del segno, assumendone, per quanto possibile, la stessa posizione valutativa[5].

La S.C. al riguardo si pone nelle vesti del destinatario consumatore delle attività delle imprese interessate – ed in particolar modo di quella che chiede la tutela del proprio segno distintivo – ponendo rilievo alle condizioni obiettive nelle quali si trova abitualmente appunto lo stesso destinatario della funzione distintiva del segno, solitamente portato, per l'appunto, ad operare più in “sintesi” che in “analisi” delle varie sollecitazioni commerciali e pubblicitarie, non potendosi richiedergli di valutare quanto un segno si differenzi da altro già a lui noto[6].

La disciplina prevista dal D.Lgs. 10-2-2005 n. 30 (C.P.I.). 
 Con l'avvento del nuovo codice della proprietà intellettuale, la tutela dei segni distintivi ha trovato, inoltre, una collocazione concorrente ed ulteriore extra codicem, con particolare riguardo all'art. 22 ove è prescritto come, in tema di “Unitarietà dei segni distintivi” sia “1.. vietato adottare come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio di un sito usato nell'attività economica o altro segno distintivo un segno uguale o simile all'altrui marchio se, a causa dell'identità o dell'affinità tra l'attività di impresa dei titolari di quei segni ed i prodotti o servizi per i quali il marchio è adottato, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni. 2. Il divieto di cui al comma 1 si estende all'adozione come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio di un sito usato nell'attività economica o altro segno distintivo di un segno uguale o simile ad un marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, che goda nello Stato di rinomanza se l'uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.”. 
 Oltre ciò va rammentato come costituiscano oggetto di tutela, a mente dell'art. 2 del C.P.I., non solo i marchi cd. “registrati” ma, anche, “ricorrendone i presupposti di legge, i segni distintivi diversi dal marchio registrato, le informazioni aziendali riservate, le indicazioni geografiche e le denominazioni di origine.”.

L'art. 22 del d.lgs. n. 30/2005, nel sancire il principio della “unitarietà dei segni distintivi”, include espressamente entro la sua previsione anche l'insegna[8].

Si è accennato come, tale previsione, garantisca una tutela “ulteriore” ed “accessoria” rispetto a quella codicistica in quanto estende la portata della condotta illegittima introducendo i criteri di affinità dell'attività commerciale delle imprese interessate e codificando il concetto di pericolo di confusione, tra l'altro già accolto dalla Giurisprudenza della S.C.

Ma elemento ancor più importante, l'annotato art. 22 introduce una specifica tutela allargata se l'uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.

Le principali novità apportate dall'art. 22 C.P.I., quindi, si rinvengono:
- nello statuito principio di “unitarietà dei segni distintivi”;
- nella sufficienza della “similitudine” nell'attività commerciale svolta dalle due realtà, così considerate in concorrenza;
- nel “rischio di associazione fra i due segni” che si aggiunge al già previsto, nell'art. 2564 c.c., “rischio di confusione per il pubblico”;
- nell'allargamento ulteriore della tutela in caso di “indebito vantaggio” da tale associazione;

La tutela della funzione distintiva nell'ambito della disciplina della concorrenza sleale: il divieto di atti creatori confondibilità (art. 2598 n. 1 c.c.). La disciplina generale.
Il Codice prevede una fattispecie tipica nei casi in cui il determinarsi della previsione di cui all'art. 2564 c.c. (e della violazione dell'art. 22 C.P.I., quindi) comporti l'avverarsi di una condotta di “concorrenza sleale”. 
L'articolo di riferimento è il 2598 c.c. che, accanto ad una definizione generale che pone a presupposto “Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi … “ statuisce nel suo numero 1) come “ …. compie atti di concorrenza sleale chiunque: 
1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente.”. 
Per quanto di interesse, quindi, l'art. 2598 c.c. vieta paritariamente:
i) l'uso di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri;
ii) il compimento con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione … con l'attività di un concorrente.

I divieti espressi dalla norma, in identità con le tutele già argomentate previste con l'art. 2564 c.c. e 22 C.P.I., sono dunque posti a protezione della funzione distintiva delle attività nell'ambito del mercato e nella tutela di una legittima concorrenza. 
Inoltre il riferimento ivi utilizzato alla confondibilità dei prodotti e dell'attività va inteso unitariamente rappresentando, secondo la Giurisprudenza[9], i due termini una endiadi in quanto i riferimenti ora all'impresa ed ora all'azienda, piuttosto che ai prodotti, contenuti e previsti nell'art. 2598 c.c., debbono essere ricondotti alla complessa e globale fenomenologia dell'attività di impresa ricomprendendo, soprattutto, la sua identificazione al pubblico dei consumatori operata, in particolare, proprio con i suoi segni distintivi.

Ne consegue come il vero termine di riferimento della confondibilità vietata dall'art. 2598 c.c. sia l'impresa stessa, e solo singolarmente i prodotti e gli aspetti di essa. 
I presupposti della prescrizione di cui al punto 1 dell'art. 2598 c.c. sono quindi costituiti:
- dall'esser un illecito di pericolo non richiedendosi la già verificata confusione, bensì la confondibilità[10];
- dalla necessità che le attività dei soggetti coinvolti siano affini[11].

Per quanto concerne l'elemento della “confondibilità” va preliminarmente sottolineato come ogni valutazione su di essa, così come quello sul carattere distintivo dei segni, corrisponda ad un giudizio di probabilità cosicchè la parte che si ritiene lesa sarà tenuta esclusivamente a concorrere alla formazione del convincimento del Giudice attraverso l'indicazione di fatti sintomatici capaci di far ritenere una effettiva e concreta probabilità di confusione.

Il giudizio che ne conseguirà circa la sussistenza della confondibilità al fine dell'accertamento della concorrenza sleale sarà, quindi, “di fatto” e non “di diritto” basandosi sul libero convincimento del Giudice e non su valutazioni tecnico – giuridiche o meramente tecniche[12].

Diversamente i criteri sostanziali per la valutazione della confondibilità in tema di concorrenza sleale, al pari di quanto argomentato per la previsione di cui all'art. 2564 c.c., dovranno basarsi poi, anch'essi, su un'operazione di “sintesi”[13] che dovrà tenere in considerazione in via principale l'impressione che può essere suscitata nel consumatore medio dall'uso dei due segni distintivi simili o eguali e, solo intermini marginali, un approfondimento analitico circa la similitudine e/o identità dei segni stessi.

In poche parole, come già visto, all'Interprete – e quindi al consumatore - interessa la conseguenza determinatasi sul consumatore medio dalla similitudine dei segni, non potendosi richiedergli di valutare quanto un segno si differenzi da altro già a lui noto[14].

Sull'affinità del settore commerciale in cui operano le due realtà coinvolte, questa non deve determinarsi in senso assoluto – in termini di identità, quindi – ma anche relativo essendo sufficiente la ricomprensione un medesimo settore merceologico[15].

La tutela invocabile. Le sanzioni.
a) Cumulabilità della tutela invocabile ex artt. 2599 e 2600 c.c. con quella di cui all'art. 2564 c.c.
In primis l'azienda che si ritiene lesa si potrà azionare al fine di richiedere, cumulativamente, sia la tutela – anche di natura inibitoria all'utilizzo del segno distintivo – disciplinata ex artt. 2599 e 2600 c.c., che quella generale di cui all'art. 2564 c.c.

Si noti come tali due forme siano richiedibili, cumulativamente fra loro, nel medesimo giudizio nel caso di segno distintivo confondibile, ove è possibile domandare sia la modificazione dell'altrui ditta, ai sensi dell'art. 2564 c.c., sia l'inibitoria dell'uso della ditta medesima a mente della normativa posta in materia di concorrenza sleale[17].

b) La pronuncia di accertamento di cui all'art. 2599 c.c.
L'art. 2599 c.c. intitolato alle “Sanzioni” previste in materia di concorrenza sleale recita come “La sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti”.

Ben si può affermare come la pronuncia di accertamento dell'avvenuta consumazione della condotta connotante concorrenza sleale costituisca presupposto immancabile di qualsivoglia altro provvedimento richiesto in materia.

Condizione necessaria e sufficiente per l'emissione di tale pronuncia (comunque idonea anche a produrre, da sola, effetti esecutivi) è la sola commissione di atti di concorrenza sleale; questa prescinde (come del resto avviene per tutti i provvedimenti previsti ex art. 2599 c.c.) sia dalla verificazione di un danno che dagli stati soggettivi dell'agente.

E' quindi autonomo – seppur strumentale ai provvedimenti restitutori, inibitori e risarcitori ad esso collegati e appresso richiesti - l'interesse del soggetto che si ritiene leso dalla condotta sleale altrui (tutelata ex art. 100 c.p.c.) a richiedere la declaratoria che dichiari ed accerti in sede giudiziale l'illegittimità della descritta attività.
c) I provvedimenti restitutori previsti dalla seconda parte dell'art. 2599 c.c.
L'art. 2599 c.c., nella sua seconda parte, prevede la possibilità di emanare, a seguito dell'accertamento della concorrenza sleale, opportuni provvedimenti diretti ad eliminare gli effetti dell'atto.
Si noti che quando la norma parla di “eliminazione degli effetti” non si riferisce affatto alla riparazione del danno verificatosi, oggetto della previsione di cui al successivo art. 2600 c.c. – proprio per l'assenza nell'art. 2599 c.c. del riferimento all'elemento soggettivo della condotta – bensì a quelle attività idonee a ricostruire la situazione di fatto corrispondente all'interesse leso o, più precisamente, lo status quo ante.

La distinzione che precede non è di poco conto in quanto, come vedremo, i provvedimenti risarcitori attuano sempre una soddisfazione per equivalente mirante a recuperare l'utilità pregiudicata dalla violazione dell'interesse leso, mentre quelli restitutori necessitano di una modellazione caso per caso con riguardo alla peculiarità della singola situazione al fine di conseguire la ricostituzione dell'interesse pregiudicato con l'atto di concorrenza sleale.

Trattasi, pertanto, di provvedimento di natura “aperta” ed atipica che dovrà atteggiarsi nelle modalità e forme idonee a rendere edotto il pubblico dei consumatori dell'illecito perpetrato nonchè dell'assenza, fra le due realtà interessate, di elementi di comunanza o identità.
d) I provvedimenti inibitori previsti dalla seconda parte dell'art. 2599 c.c.
La seconda parte dell'art. 2599 c.c. prevede anche la possibilità che il Giudice emetta provvedimenti inibitori di natura sostanziale, riconoscendosi questi nelle pronunce volte a condannare il convenuto a non continuare e/o ripetere una condotta illecita.

Detta sanzione, infatti, ben si adatta al tipico carattere continuato dell'attività imprenditrice non occorrendo, come visto, che l'attore provi di avere già sofferto un danno né – per la formulazione letterale propria dell'art. 2599 c.c. – che il convenuto sia in dolo o colpa.

Unico presupposto richiesto è il pericolo del danno, vale a dire la probabilità della continuazione o del ripetersi dell'atto sleale[19], conseguendone come contenuto tipico della richiesta avanzata dal soggetto leso sia l'”ordine di cessazione” dell'attività illegittima.

e) I provvedimenti risarcitori richiedibili. Presupposti. L'art. 2600 c.c. L'elemento soggettivo.
L'art. 2600 c.c. intitolato al “Risarcimento del danno” recita come “Se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l'autore è tenuto al risarcimento dei danni. In tale ipotesi può essere ordinata la pubblicazione della sentenza. Accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume”.

A differenza della norma che precede la sussistenza di dolo o colpa in capo all'agente costituisce l'indispensabile presupposto dell'obbligazione di risarcimento.

Per quanto concerne la colpa, ove l'attore non sia nella disponibilità o volontà di provare in giudizio il ben più grave (anche in termini risarcitori) elemento soggettivo del dolo, accertati gli atti sleali si presume fino a prova contraria; ne consegue come, con inversione dell'onere probatorio, spetti all'autore della condotta di concorrenza sleale provare che la stessa sia stata posta in essere in ignoranza incolpevole.

f) segue: risarcimento del danno. Liquidazione equitativa.
La determinazione del quantum del danno agli effetti del risarcimento in numerario appare particolarmente problematica in materia di concorrenza sleale.

Ciò induce di frequente il Giudice a pronunciare una condanna generica o a formulare una liquidazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c.

Per quanto concerne tale secondo aspetto l'art. 1226 c.c. conferisce al Giudice il potere di indennizzare un soggetto che abbia patito un torto o una lesione al suo diritto ove:
a) sia stata portata prova valida che un danno si sia verificato in concreto, sia pure in via approssimativa, in conseguenza diretta ed immediata del fatto dell'obbligato;
b) che il danno non possa essere liquidato nel suo preciso ammontare.

L'Interprete, pertanto, avrà la possibilità solo di basarsi, nella sua declaratoria di condanna, su altri elementi rilevanti non di natura numerica quali: lo sviamento della clientela, la perdita di immagine, gli illeciti altrui profitti etc. al fine di determinare, equitativamente, il risarcimento del danno dovuto all'azienda lesa a seguito dell'illegittima condotta posta in essere.

f) segue: risarcimento in forma specifica e pubblicazione della decisione.
Il risarcimento del danno disciplinato dall'art. 2600 c.c. deve essere inteso secondo i principi generali in materia di responsabilità extracontrattuale come comprensivo anche del risarcimento in forma specifica, diversa dal numerario, ma che pur sempre assicuri la ricostituzione dell'utilità pregiudicata dalla violazione dell'interesse stesso.

Aspetto tipico, in quanto espressamente previsto nella norma, di risarcimento è la pubblicazione della sentenza che accerti perpetrata la condotta di concorrenza sleale.

Si noti come, indipendentemente da quanto precede, l'ordine di pubblicazione della sentenza previsto dall'art 2600 c.c. costituisce sanzione autonoma, diretta a portare a conoscenza del pubblico la reintegrazione del diritto offeso, e prescinde dall'esistenza di un danno e dalla sua riparabilità o riparazione per mezzo di diversa statuizione di condanna[20].

E' pertanto, ed in definitiva, sufficiente la prova della potenzialità dannosa dell'atto sleale[21] che, ovviamente, è tutt'uno con il suo accertamento.

La S.C., sul punto, si spinge addirittura oltre il concetto di autonomia dall'effettiva sussistenza di un danno risarcibile statuendo come: “La sanzione della pubblicazione della sentenza nei giornali prevista dall'art. 2600 c.c., per il caso che sia accertata la sussistenza di atti di concorrenza sleale, non è subordinata né indissolubilmente collegata alla pronunzia di condanna al risarcimento del danno, di guisa che la pubblicazione della sentenza può essere disposta anche quando la concorrenza sleale non abbia prodotto in concreto danni risarcibili”[22].

Ne consegue come, ferma restando l'istanza risarcitoria che precede, il Giudice potrà comunque condannare l'autore della condotta illegittima a provvedere, a sue cure e spese, alla pubblicazione della sentenza di accertamento della perpetrata concorrenza sleale individuando, in ossequio alle finalità e settore territoriale e di mercato di interesse, il mezzo in tal senso idoneo. 
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[1] Cass. Civ. Sez. I, sent. n. 8764 del 27-08-1990 
[2] Cass. Civ., sent. n. 1310 del 01.03.1986
[3] Cass. Civ. Sent. n. 7425 del 12.12.1986
[4] Cass. Civ. sent. n. 826 del 15.03.1969 secondo cui l'ambito territoriale "non coincide necessariamente con quello della notorietà dell'impresa stessa, notorietà che costituisce solo una situazione favorevole per l'eventuale espansione dell'impresa, occorrendo inoltre che l'impresa abbia compiuto concreti atti come forme di pubblicità, acquisto locali, eccetera che denotino una concreta intenzione di sfruttare la notorietà acquisita".
[5] Cass. Civ. Sez. I, sent. n. 1437 del 26.02.1990
[6] Parte motiva sentenza sub. Nota 5
[7] Cass. Civ. sent. n. 2881 del 15.06.1989; Cass. Civ. sent. n. 10728 del 15.12.1994
[8] Tribunale di Mantova, Sez. II Civ. ordinanza 19 maggio 2005.
[9] Cass. Civ. sent. n. 659 del 13.02.1978
[10] Cass. Civ. Sez. sent. n. 10728 del 15.12.1994; Cass. Civ. sent. n. 1310 del 01.03.1986; Trib. Milano sent. 19.02.1979
[11] Trib. Milano sentenza 27.03.1972; Corte di Appello di Roma sentenza 16.04.1974; Corte di Appello di Milano sentenza 12.06.1973
[12] Cass. Civ. sent. n. 229 del 27.01.1967; Cass. Civ. Sent. N. 903 del 06.04.1966; Cass. Civ. Sent. N. 6099 del 15.11.1982; Cass. Civ. Sent. N. 6928 del 21.11.1993.
[13] Note sub 5 e 6
[14] Parte motiva sentenza sub. Nota 5
[15] Cass. Civ. sent. n. 13127 del 06.12.1991
[16] Cass. Civ. Sez. sent. n. 10728 del 15.12.1994; Cass. Civ. sent. n. 1310 del 01.03.1986; Trib. Milano sent. 19.02.1979
[17] Trib. Bologna Sez. spec. propr. industr. ed intell., sentenza 28.06.2010; Trib. Roma sentenza 15.12.1999; Cass. civ. sent. n. 8691 del 09.08.1991
[18] Trib. Milano sentenza 30.06.1972
[19] Corte di Appello di Roma sent. n. 978 del 31.10.1977 e Cass. Civ. n. 2669 del 23.04.1980
[20] Trib. Firenze sentenza 10.05.2001
[21] Cass. Civ. n. 37078 del 08.11.1968.
[22] Cass. Civ. n. 1535 15.07.1965.
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