Data: 27/07/2013 10:20:00 - Autore: L.S.
"Il rifiuto, da parte del lavoratore subordinato, di essere addetto allo svolgimento di mansioni non spettanti pu� essere legittimo e quindi non giustificare il licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive enunciato dall'art. 1460 cod. civ., sempre che il rifiuto sia proporzionato all'illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede." Questo il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 17713 del 19 luglio 2013, ha altres� precisato che "deve considerarsi legittimo il rifiuto opposto da un dipendente di una societ� che si occupa del commercio e della vendita di alimenti e bevande, e che � articolata sul territorio in pi� punti vendita, di svolgere il "servizio di permanenza di direzione" di uno di questi punti vendita - servizio che comporta l'assunzione del ruolo di responsabile del punto vendita stesso, nei suoi riflessi anche penalistici - se non � dimostrato che si tratta di un compito rientrante nella qualifica di competenza del lavoratore e che questi ha conoscenze adeguate per il relativo svolgimento." La Suprema Corte ha evidenziato che la Corte territoriale per giungere ad affermare che "il suddetto rifiuto - comunque da valutare nell'ambito del complessivo comportamento del lavoratore, in tutti i suoi elementi soggettivi ed oggettivi, cosa che non risulta essere stata fatta in modo adeguato - era tale da costituire una giusta causa di licenziamento, avrebbe dovuto: a) stabilire se - sulla base della pacifica premessa che il lavoratore non aveva rifiutato lo svolgimento di qualsiasi prestazione lavorativa, ma solo quello di una specifica mansione - tale ultima prestazione era o meno conforme alla qualifica di appartenenza; b) precisare il contenuto della prestazione del "servizio di permanenza di direzione" nell'ambito dell'Ipermercato e le ragioni per le quali ad essa si collega l'eventualit� di essere esposti a responsabilit� penale; c) verificare se la motivazione del rifiuto - pacificamente non consistente, di per s�, del carattere dequalificante della mansione, ma nel desiderio di evitare il rischio di subire eventuali procedimenti penali, come gi� accaduto in passato - era da ricercare nell'inadempimento del datore di lavoro, salvo il limite della buona fede e salva la doverosa osservanza delle disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartite dall'imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 cod. civ., da applicare alla stregua del principio sancito dall'art. 41 Cost.". Cassata dunque la sentenza della Corte d'Appello la cui motivazione - secondo i giudici di legittimit� - in merito alla sussistenza della giusta causa del licenziamento poggia su lacune e imprecisioni e risulta complessivamente del tutto apodittica e priva della doverosa analisi del comportamento del lavoratore in tutti i suoi aspetti oggettivi e soggettivi, finalizzata a dimostrarne l'idoneit� a fare venire meno in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro.
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