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Data: 08/08/2013 11:00:00 - Autore: C.G. di Francesca Tessitore - Un soggetto chiede l'accertamento dell'avvenuto acquisto per usucapione di un fabbricato con relativa quota in comproprietà del cortile comune, appartenente ad un defunto zio, nel quale il nipote svolge l'attività di falegnameria dagli anni Cinquanta. Alla domanda si oppongono gli eredi del de cuius ed il Tribunale rigettava la domanda di usucapione ritenendo "che l'attore non aveva dato prova di aver posseduto con l'animus rem sibi habendi, considerato che era possibile, dati i rapporti molto stretti del de cuius con il nipote (anche dal punto di vista della coabitazione) che la disponibilità dell'immobile avrebbe potuto essere avvenuta per mera condiscendenza." La decisione è stata confermata in Appello in quanto è stato dichiarato che "l'attore aveva la consapevolezza di detenere il bene, traendone i frutti con il consenso dell'effettivo intestatario". La Suprema Corte ha rivelato come l'attività d'indagine svolta al fine di valutare il possesso ad usucapionem è riservata al giudice di merito. Infatti "l'accordo raggiunto verbalmente tra zio (proprietario) e nipote (detentore) al quale (…) pagava direttamente l'affitto non può essere stato idoneo a far sorgere nell'odierno appellante l'animus possidendi (egli stesso infatti ebbe a riconoscere la proprietà dello zio)." L'usucapione quindi non poteva essere conseguita né durante l'esistenza in vita del de cuius né successivamente alla sua morte in quanto "dopo la morte dello zio (…), si formò una comunione tra gli eredi ed è pacifico il principio giurisprudenziale secondo cui con riferimento ai beni in comunione non è sufficiente il solo possesso perché possa maturare l'usucapione a favore di uno dei partecipanti, occorrendo un comportamento materiale che esteriorizzi sin dall'inizio in maniera non equivoca l'intento di possedere il bene in maniera esclusiva."
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