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Data: 29/08/2013 10:00:00 - Autore: Luisa Camboni La norma incriminatrice del reato che andiamo ad esaminare (Art. 595 del codice penale) è collocata dal Legislatore nel Capo II, Dei delitti contro l'onore, del Titolo XII, Dei delitti contro la persona, del Libro II del codice penale. Tale titolo prevede e punisce i delitti che offendono gli aspetti più strettamente morali e sociali della personalità. Tra questi è ricompreso l'onore, inteso latu sensu, quale complesso delle condizioni da cui dipende il valore sociale della persona. Più precisamente, sotto l'aspetto soggettivo ci si riferisce alla considerazione che ogni soggetto ha delle proprie doti (ovvero le qualità di una persona), sotto l'aspetto oggettivo alla considerazione di cui l'individuo gode nella comunità sociale (c.d. reputazione). Giova rammentare che i delitti contro l'onore, contenuti nel Capo in esame, sono due: il reato di ingiuria, art.594 c.p. e il reato di diffamazione, art. 595 codice penale. Il delitto di ingiuria presuppone la presenza della persona offesa al momento in cui viene posta in essere l'azione criminosa, mentre la diffamazione si realizza quando il soggetto offeso è assente. Oggetto di tutela di tali fattispecie delittuose è l'onore, id est il sentimento che l'individuo ha della propria dignità morale (ingiuria) e la reputazione di cui egli gode all'interno della comunità sociale (diffamazione); sentimento che viene leso da quelle accuse o da quelle offese che alterano in peius tale percezione. Difatti, ai sensi dell'art. 595 c.p., commette il reato di diffamazione "Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente [ndr: ossia l'articolo 594 relativo all'ingiuria], comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032. Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065. Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516. Se l'offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate". Oggetto giuridico tutelato da questa norma è la reputazione personale intesa come il giudizio o la stima di cui l'individuo gode nell'ambiente sociale. Va precisato che la Cassazione ritiene che l'offesa alla reputazione non è circoscritta al solo ambito personale, ma può consistere nell'aggressione alla sfera del decoro professionale (Cass. Pen. Sez. V, n. 5945/1982). Per la configurabilità dell'elemento materiale del reato de quo è necessaria la presenza di tre requisiti: • assenza dell'offeso. È proprio questo requisito che determina, peraltro, la maggiore gravità della diffamazione rispetto all'ingiuria per la maggiore quantità ed estensione del danno e per la viltà e la particolare pericolosità del colpevole. L'offeso, in quanto assente, si trova in una posizione di svantaggio perché non alcun diritto di reazione e difesa alle offese altrui. Difatti, da ciò deriva l'impossibilità che reato di ingiuria e reato di diffamazione concorrano formalmente: quando è presente la persona offesa dal reato si ha ingiuria, aggravata nel caso di presenza di più persone; • offesa dell'altrui reputazione; • comunicazione a più persone, cioè la divulgazione con qualsiasi mezzo ad almeno due persone del fatto offensivo. Perché possa parlarsi di diffamazione è, dunque, necessario che sia lesa la reputazione di una persona determinata. Ciò è confermato, anche, dalla Suprema Corte che ha puntualizzato che il reato non si realizzerà quando l'offesa viene pronunciata nei confronti di una o più persone appartenenti ad una categoria se le persone cui è diretta non sono individuabili. Il delitto in esame è riconducibile alla categoria dei reati di danno e si consuma con la conoscenza da parte delle due o più persone del fatto offensivo. E, ancora, la Suprema Corte ha affermato che la diffamazione è un reato formale ed istantaneo che si consuma con la comunicazione con più persone lesiva dell'altrui reputazione onde diviene irrilevante, ai fini del perfezionamento della fattispecie, una maggiore espansione quando si sia realizzata la propalazione minima, sempre che si rimanga nello stesso contesto di azione. Ha avuto, altresì, modo di affermare, in un caso di diffamazione posta in essere attraverso Internet, come il reato si consumi al momento della ricezione del messaggio diffamatorio da parte di terzi rispetto all'agente ed alla persona offesa, trattandosi di un reato di evento non fisico ma, per così dire, psicologico, consistente nella percezione da parte del terzo dell'espressione offensiva (Cass. Pen., Sez. V, 17 novembre 2000, n. 4741). Parte della dottrina, invece, ritiene che siamo in presenza di un reato di pericolo e non è, dunque, necessario, per la configurabilità del reato, che la riprensione abbia trovato credito presso coloro che l' hanno appresa e, quindi, non si esige che la reputazione sia distrutta o diminuita. Secondo altra parte della dottrina si tratta, invece, di un reato di danno e l'offesa presa in considerazione dalla norma costituisce l'effettiva lesione del bene-reputazione. La lettera della norma sembra dirigersi nel primo senso, dal momento che manca in questa un richiamo espresso all'effettiva perdita di stima. In ogni caso la problematicità di inquadramento nell'una o nell'altra categoria di reati dipendono anche dalla natura del bene tutelato, che non consente una sua precisa e concreta individuazione. La fattispecie criminosa ha, perciò, natura di delitto istantaneo ed il reato è perfetto con la percezione dell'offesa, mentre le condotte poste in essere successivamente alla consumazione del reato vale a dire scuse, ritrattazione, rettifica… non rivestono alcun effetto sotto il profilo della sussistenza della condotta delittuosa, ma possono eventualmente rilevare ai fini della determinazione della pena e del risarcimento richiesto (in posizione opposta, però, Cass. civ., 24.04.2008, n. 10690: "Benché i rimedi inibitori, risarcitori e speciali apprestati dall'ordinamento siano, di regola, autonomamente e cumulativamente esperibili, non può negarsi che il diritto di risposta e rettifica possa svolgere anche una funzione riparatoria e che, pertanto, sia suscettibile di non lasciare spazio ad un danno ulteriormente risarcibile"). Quanto affermato sopra risulta di notevole rilevanza, ciò perché la dimostrazione della natura diffamatoria delle comunicazioni dell'agente è essenziale ai fini dell'accertamento del reato. Infatti, sembra banale dirlo, perché possa configurarsi la diffamazione, deve sussistere l'offesa alla reputazione. Se già, in virtù dell'accertamento di fatto operato dal giudice, non si riscontrerà l'attitudine offensiva della condotta, perché, ad esempio, l'ambiente in cui è stata posta in essere o il suo particolare contesto consentono di esprimersi in termini quasi offensivi, l'indagine sull'elemento oggettivo del reato porterà alla conclusione che il fatto non costituisce reato. Per spiegare meglio, si pensi al periodo di campagna elettorale ai salotti televisivi dove, sovente, vengono utilizzate espressioni pungenti e suggestive dai politici per apostrofare colleghi e personaggi pubblici, al fine di comunicare più efficacemente con i cittadini e carpirne il consenso. Difatti anche noi che ascoltiamo, da spettatori, tali dibattiti tra politici non cogliamo il significato offensivo ex se dell'espressione eventualmente utilizzata, se in quanto strettamente connesso al problema di interesse pubblico, più rilevante, su cui si controverte. Se nel caso, appena descritto, la tutela della reputazione è giustificata dallo specifico contesto in cui si realizza la comunicazione offensiva, la relatività del concetto di reputazione non può, a ogni buon conto, arrecare una modifica in peius della tutela apprestata dal nostro sistema penale quando una data persona sia, per qualsivoglia motivo, disistimata o disonorata. A modesto parere di chi scrive, ciò vuol dire che quel minimum di valore sociale, a cui prima accennavo, va riconosciuto a tutti gli individui, che, in quanto tali, hanno una dignità personale e un diritto all'integrità morale che è in toto svincolata dalla buona o cattiva reputazione posseduta. Il rispetto sociale è dovuto a chiunque e il nostro ordinamento non può tollerare lesioni alla reputazione di soggetti, che, pur essendo già danneggiati per altri motivi, non possono avere lesa la propria dignità personale o professionale impunemente. Ciò, peraltro, violerebbe i principi sanciti dalla nostra Carta Costituzionale e, in particolare, agli artt. 2-3 cost., che assicurano e garantiscono a tutti il diritto all'identità personale: ovvero il diritto ad essere se stessi con tutto il bagaglio culturale, religioso, morale, politico che ci contraddistingue. Da ciò discende il diritto per tutti ad avere la propria individualità tutelata a nulla rilevando la condizione sociale ed economica. Quanto alla configurabilità del tentativo nel reato de quo esso è configurabile nel caso in cui l'offesa divulgata dall'agente, non sia giunta a uno dei soggetti, cui la comunicazione era diretta, per distrazione. Si osserva che il tentativo potrebbe, anche, verificarsi in astratto, ma la possibilità che si realizzi in concreto è limitata anche dal fatto che, essendo un reato perseguibile a querela di parte, si presuppone, perché si configuri, che il soggetto passivo sia venuto a conoscenza dell'offesa rivoltagli. Nel delitto di diffamazione quanto all'elemento soggettivo non occorre dimostrare l'animus diffamandi: è sufficiente il dolo generico. Il dolo generico deve consistere: - nella coscienza e volontà di porre in essere la condotta offensiva; - nella consapevolezza di ledere con l'offesa l'altrui reputazione; - e nella convinzione che l'addebito offensivo sia percepito da almeno due persone. Chi scrive ritiene opportuno evidenziare che la fattispecie delittuosa in esame è punibile, anche, a titolo di dolo eventuale ricadendo nella coscienza e volontà dell'offesa anche l'accettazione del rischio dell'offesa (es. dubbio dell'agente sul carattere offensivo dell'espressione utilizzata). Vediamo ora quali cause di giustificazione trovano applicazione in presenza del reato di diffamazione. Le cause di giustificazione, dette anche esimenti o scriminanti, sono situazioni particolari, in presenza delle quali, un fatto che di regola è vietato dalla legge penale viene imposto o consentito dalla legge e, quindi, non può ritenersi antigiuridico. Tra le cause di giustificazione comuni che si applicano, solitamente, alla diffamazione vi sono l'esercizio di un diritto e l'adempimento di un dovere (art. 51 c. p.). Ai sensi dell'art. 596 del c. p. " Il colpevole […] non è ammesso a provare, a sua discolpa, la verità o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa". Insomma, l'autore della diffamazione, da quanto si desume dalla norma, non è ammesso a provare la verità dei fatti (exceptio veritatis) se non in casi espressamente previsti. Insomma, il divieto di exceptio veritatis, secondo unanime giurisprudenza, non può trovare applicazione in tutte quelle circostanze in cui l'autore del fatto incriminato abbia agito nell'esercizio di un diritto, ex art. 51 c.p.(si pensi all'ipotesi del diritto di cronaca del giornalista o al legittimo esercizio del diritto di critica). L'esimente della provocazione Ai sensi dell'articolo 599 del c.p., comma 2 "Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 594 e 595 nello stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso". A questo punto poniamo un interrogativo: quando può ritenersi sussistente l'esimente della provocazione nei reati contro l'onore e, quindi, nel reato di diffamazione? La risposta è fornita dalla Suprema Corte che ha precisato che " Ai fini del riconoscimento dell'esimente della provocazione nei delitti contro l'onore, non è necessario che la reazione venga attuata nello stesso momento in cui sia ricevuta l'offesa, essendo sufficiente che essa abbia luogo finché duri lo stato d'ira suscitato dal fatto provocatorio, a nulla rilevando che sia trascorso del tempo, ove il ritardo nella reazione sia dipeso unicamente dalla natura e dalle esigenze proprie degli strumenti adoperati per ritorcere l'offesa" (Cass. Sez.V 7 marzo 2006-19 aprile 2006 n. 13735). Querela della persona offesa La disciplina della querela da parte della persona offesa è disciplinata dall'articolo 597 c.p.. Che deve fare il soggetto passivo del reato di diffamazione? Se intende far perseguire penalmente il responsabile deve presentare querela (ex art 120 ss. c.p. e ex art. 336 ss. c.p.p.) entro e non oltre i tre mesi dalla conoscenza dell'atto diffamatorio. La querela può essere depositata o dalla persona offesa oppure dall'avvocato; in questo caso l'avvocato deve munirsi di una delega ad hoc; avvocato che assumerà la difesa davanti al giudice in caso venga avviato un procedimento nei confronti del presunto colpevole. Tale querela può essere ritirata in qualsiasi momento del processo che preceda la sentenza da parte del giudice. Infine, il reato di diffamazione può essere causa di danni, anche, gravi per chi lo subisce. In questo caso, la persona che si ritenga lesa da tale condotta può agire in sede civile per ottenere il risarcimento dei danni patiti. La tipologia di danni che deriva da tale reato è di tipo non patrimoniale può trattarsi di danno morale, ma non è da escludere la ravvisabilità, anche, di un danno esistenziale e, così, pure, nei casi più gravi, di un danno biologico. L'azione di risarcimento dei danni derivanti dal reato di diffamazione è soggetta all' ordinario termine di prescrizione di cinque anni. Senonchè, trattandosi di illeciti civili considerati dalla legge anche sotto il profilo penale, può applicarsi l'eventuale più lungo termine di prescrizione previsto per il reato, semprechè, ove il giudizio penale non sia stato promosso, il giudice civile accerti, "incidenter tantum", la sussistenza del reato in tutti i suoi elementi costitutivi. Concludo questo mio breve excursus con un invito al rispetto del principio del "neminem laedere", principio in base al quale tutti noi siamo chiamati, all'atto del compimento delle nostre azioni, al rispetto altrui. |
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