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Data: 08/09/2013 10:00:00 - Autore: Nadia F. Poli di Nadia Fusar Poli - La Corte di Cassazione ha esaminato un caso riguardante il trattamento dei dati personali immessi all'interno dei sistemi bancari, affermando e ribadendo alcuni principi relativi all'argomento. La decisione cui è giunta la Suprema Corte muove da quanto disposto dagli artt. 7, 8 e 10 del D.Lgs. 196/2003 - in base ai quali gli interessati al trattamento dei dati personali in ambito bancario possono richiedere agli intermediari tutte le informazioni sulla quantità, qualità, finalità e logica adottata al trattamento, in relazione ai propri dati - dall'art. 119 comma 4 TUB - che prevede che i clienti possano ottenere a proprie spese entro congruo termine e comunque non oltre 90 giorni dalla richiesta, copia della documentazione relativa ad una o più operazioni effettuate dalla banca- e dagli artt. 1366, 1375, 1374 c.c., in cui il viene sancito il principio di buona fede quale fondamento del diritto all’acquisizione della documentazione relativa al rapporto bancario. Secondo quanto stabilito dalla Corte suprema con la decisione n. 18555 del 2 agosto 2013, il riscontro alla richiesta dell'interessato ai sensi dell'art. 7 (Legge privacy) deve essere fornito con la massima tempestività. Nel caso oggetto d'esame, il soggetto che aveva inoltrato istanza di accesso ai propri dati personali temendo di essere stato segnalato alla Centrale Rischi della Banca d'Italia, non avendo ricevuto riscontro, aveva chiesto al Tribunale di Milano (con il rito al tempo previsto dall'art. 152 Legge privacy) che fosse ordinato alle banche di dare immediato riscontro alle proprie istanze. Gli istituti di credito si erano difesi sostenendo che la richiesta avanzata non atteneva alla comunicazione dei dati personali dell'interessato ma, piuttosto, si riferiva ai pagamenti effettuati dal soggetto nel corso del rapporto contrattuale e, pertanto, i tempi per rispondere alla richiesta erano stati influenzati da attività relative alla chiusura dell'anno finanziario ed alle festività. La vicenda si è conclusa con la pronuncia della Corte che, richiamato un precedente (sentenza 349/2013) ha confermato che la richiesta di accesso ai dati personali deve essere soddisfatta "senza ritardo" da parte del soggetto destinatario, titolare del trattamento. Il giudice di merito ha considerato perentorio il termine di 15 giorni stabilito dall'articolo 146, D.lgs. 196/2003, che si configura quale congruo "spatium deliberandi" al fine di elaborare e consegnare le informazioni da comunicare al cliente interessato, chiarendo che lo scopo della norma invocata è quello di "garantire, a tutela della dignità e riservatezza del soggetto interessato, la verifica dell'avvenuto inserimento, della permanenza, ovvero della rimozione" di dati personali, e ciò indipendentemente dalla circostanza che tali eventi fossero già stati portati in altro modo a conoscenza dell'interessato. Nella sentenza della Suprema Corte si legge inoltre che tale verifica può essere attuata "mediante l'accesso ai dati raccolti sulla propria persona in ogni e qualsiasi momento della propria vita relazionale". Nadia Fusar Poli |
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