Data: 28/10/2013 16:00:00 - Autore: Avv. Luisa Camboni
La fattispecie del delitto tentato è prevista, nel nostro codice penale, dall'art. 56 c.p. che, così, dispone: “Chi compie atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica. Il colpevole del delitto tentato è punito: con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l'ergastolo; e, negli altri casi con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi. Se il colpevole volontariamente desiste dall'azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso. Se volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà”. La prima osservazione che va fatta è la seguente: il tentativo non riguarda le contravvenzioni. Il tentativo riguarda solo i delitti e, quindi, non potrà mai parlarsi, ad esempio, di tentativo di abuso edilizio, ciò perché l'abuso edilizio è un reato di natura contravvenzionale. Ciò è confermato dalla dizione letterale del Codice che’ammette la sanzione penale, a titolo di tentativo, soltanto per i delitti, e non già per le contravvenzioni. Ciò lo si desume, non solo, dalla rubrica dell'art. 56 c.p. “Delitto tentato”, ma anche dal comma 1, che fa riferimento ad “atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto […]”, e, ancora, dal comma 2, il quale, fissando la pena per il delitto tentato, prevede le misure sanzionatorie proprie dei delitti: reclusione, ergastolo, pena pecuniaria prevista per il delitto. Che cosa è il tentativo? E' una figura autonoma di reato e, come tale, non può essere una circostanza attenuante. Difatti, quando si è in presenza di un fatto-reato per il quale sussistono circostanze attenuanti e aggravanti, il Giudice dovrà irrogare la pena facendo riferimento al c.d. bilanciamento, ovvero determinando il valore delle aggravanti e il valore delle attenuanti e scegliendo come comportarsi di conseguenza. Quali elementi costituiscono il tentativo? La risposta è offerta dal comma 1 dell'art. 56 c.p. dove si parla di “atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto”. Occorre, quindi, l'idoneità degli atti e la non equivocità degli stessi. Il giudizio di idoneità degli atti va effettuato ex ante, cioè nel momento in cui la condotta viene posta in essere. Difatti, se la valutazione della idoneità venisse compiuta ex post non si configurerebbe mai tentativo punibile, poiché in assenza di azione, nei reati di mera condotta, e di evento, nei reati ad evento naturalistico, si avrebbe sempre la prova della inidoneità degli atti compiuti. La dottrina penalistica sul concetto di “idoneità” ha fornito una lettura in senso oggettivo; difatti ritiene idonei quegli atti che presentano un potenziale offensivo che non si è realizzato per cause indipendenti, estranee dalla volontà del reo. Pertanto, sono da considerarsi idonei quegli atti che, pur non realizzando la fattispecie delittuosa (c.d. delitto consumato), sfociano, comunque, in una situazione di pericolo per il bene giuridico tutelato dalla norma. Quanto al giudizio di non equivocità, è bene osservare che questo andrà riferito non all'ultimo degli atti posti in essere, bensì agli atti facenti parte del disegno criminoso, ovvero agli atti legati da contestualità e da connessione teleologica. Quanto all'elemento soggettivo, è certo che il tentativo richieda il dolo: dolo diretto. Sul punto la Suprema Corte ha precisato che: “ Nel delitto tentato il dolo deve essere diretto, in quanto soltanto da tale specie di elemento psicologico, non realizzandosi alcun evento, è possibile dedurre l'inequivoca direzione degli atti concretizzati dall'agente verso l'evento non realizzatosi per cause indipendenti dal suo comportamento, così come espressamente voluto dal legislatore con l'espressione” diretti in modo non equivoco a commettere un delitto” usata nel 1 comma dell'art. 56 c.p. per qualificare gli atti, già di per sé idonei, posti in essere dall'agente del delitto tentato” ( Cass., sez. I, 17 marzo 1995 – 28 aprile 1995 n. 1639). Si richiede in ogni caso la presenza di dolo, e quindi la coscienza e volontà di causare l'evento - inteso in senso ampio di evento giuridico, quale lesione del bene tutelato dalla norma-, che nella situazione reale non si concretizza. Insomma, il dolo del tentativo deve, necessariamente, consistere nell'intenzione di commettere il delitto perfetto. Quali sanzioni il Legislatore ha previsto in caso di delitto tentato? Le conseguenze sanzionatorie della commissione di un delitto tentato sono indicate chiaramente al comma 2, dell'art. 56 c.p.: “Il colpevole del delitto tentato è punito: con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l'ergastolo; e, negli altri casi con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi”. Il Legislatore ha, dunque, come si desume dalla norma, ritenuto opportuno prevedere una sanzione in caso di delitto tentato, sanzione che deve, necessariamente, essere ridotta rispetto alla pena prevista per il delitto consumato. Ai commi 3 e 4 della medesima norma, il Legislatore prevede le figure della desistenza volontaria e del recesso attivo stabilendo un autonomo trattamento sanzionatorio rispetto al delitto tentato. Il comma 3, dell'art. 56 c.p. relativo alla desistenza volontaria così recita: “Se il colpevole volontariamente desiste dall'azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso”. Il comma 4, dell'art. 56 c.p. relativo al recesso attivo così dispone: “Se volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà”. E' facile desumere, dal tenore letterale della norma, la differenza tra le due ipotesi: - in caso di desistenza volontaria l'agente volontariamente desiste, abbandona l'azione; - in caso di recesso attivo, invece, l'azione è già stata compiuta, ma l'agente, come dice il Legislatore, “ volontariamente” impedisce il verificarsi dell'evento. Da queste brevi osservazioni, si può evincere, ictu oculi, che il recesso attivo sarà configurabile soltanto per i reati di’evento, nei quali la consumazione consiste non nel compimento della sola condotta, bensì nella produzione di evento naturalistico conseguente alla tenuta di una determinata condotta (es. omicidio). Quali sanzioni in caso di desistenza volontaria e di recesso attivo? Quanto all'ipotesi della desistenza volontaria, il nostro Legislatore ha voluto rendere l'agente esente da pena, quantomeno per quella riconducibile all'azione da cui ha volontariamente desistito; se l'agente ha con quella condotta commesso altri reati sarà, comunque, punibile per essi (si pensi ad esempio alla desistenza volontaria dal furto con scasso; tale comportamento non esime il reo dalla pena prevista per il danneggiamento). In caso di recesso attivo, che richiede un'attivazione dell'agente al fine di impedire il verificarsi dell'evento, il nostro codice prevede la previsione di una sanzione penale, sia pur ridotta rispetto al delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà. Chi scrive ritiene opportuno evidenziare che il recesso attivo opera come circostanza attenuante nel caso in cui l'evento si verifichi e, quindi, il delitto si possa considerare a tutti gli effetti consumato. In questo caso trova applicazione l'art. 62, comma 1, n.6 c.p., in forza del quale il reato è attenuato se il colpevole si è “[…]adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato”. Da ultimo, per dovere di completezza, delineo il rapporto che intercorre tra l'articolo 56 c.p., relativo al delitto tentato e l'art. 49, comma 2 c.p., relativo al reato impossibile. La giurisprudenza prevalente considera il reato impossibile quale conseguenza in negativo del tentativo inidoneo; in altri termini l'azione dell'agente risulta essere non idonea a raggiungere il risultato lesivo descritto dalla norma. Su tale affermazione esistono ancora perplessità. Chi scrive non aderisce a tale affermazione in quanto considera le due figure tra di loro assolutamente distinte. Perché? Il reato impossibile è configurabile sia per i delitti che per le contravvenzioni, mentre il delitto tentato solo per i delitti. Tale diversità la si desume anche dal tenore letterale delle norme: - l'art. 49, comma 2, c.p. utilizza ’l'espressione “inidoneità dell'azione”; - l'art. 56 c.p. usa il termine “atti”. Il reato impossibile si può anche configurare per inesistenza dell'oggetto, non già nel tentativo inidoneo. Inoltre, mentre nel reato impossibile il giudizio di inidoneità dell'azione va effettuato ex post, nel caso della valutazione dell'idoneità degli atti del tentativo, come già evidenziato in precedenza, la valutazione si compie ex ante. Sotto il profilo sanzionatorio, il reato impossibile non comporta la comminazione di una pena, ma può essere oggetto di una misura di sicurezza ex art. 49, comma 4, c.p.. Il tentativo inidoneo, invece, oltre a non ammettere pena, non ammette nemmeno l'applicazione di misure di sicurezza. Su quest'ultima affermazione parte della dottrina solleva dei dubbi ritenendo “ il tentativo inidoneo un fatto che, pur non concretamente offensivo, è pur sempre qualcosa in più del reato impossibile rispetto al quale esiste una totale ed oggettiva impossibilità dell'evento dannoso o pericoloso”. A chiusa di questo breve excursus, da professionista consiglio: tutte le volte che si ha il sospetto di essere indagati o di aver subito un reato mai temporeggiare … è bene rivolgersi ad un buon avvocato penalista al fine di ricevere delucidazioni sul caso concreto e decidere tutto quanto sia necessario compiere al fine di essere informati dell'esistenza di procedimenti a proprio carico, oppure per verificare la sussistenza dei presupposti per inoltrare una denuncia. Avv. Luisa Camboni Studio Legale Avv. Luisa Camboni Via L. Garau n. 22 - 09025 Sanluri (CA) Cell.: 3281083342 mail: avv.camboni@tiscali.it
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