Non ho nemmeno cominciato e già mi sono
rotto.
Ovunque io vada, trovo sempre e soltanto
fastidiosi capannelli di gente in attesa.
Non è certo colpa degli altri colleghi
se c'è folla, ma resta il fatto che sia fastidioso.
Si passa la vita ad aspettare il proprio
turno in file vergognose, indegne di un sistema civile.
Sono nato in questa Italia e sono costretto
a sopportarne la gretta mentalità, la pessima organizzazione e le leggi
imbelli che la disonorano. La situazione generale è, a dir poco, ridicola.
Bisogna cambiare e alla svelta!
Sradicare tutto senza scrupoli di sorta
per correggere le grottesche storpiature di una società, di un sistema,
che ci beffeggia consumando vanamente il nostro tempo e il nostro avvenire.
Il mio tempo è prezioso.
Nel mio presente sto per completare il
periodo di pratica legale presso il Foro di Catania. Il mio piccolo
studio si trova in provincia, alle porte dell'Etna, e proprio mentre
scrivo questo sfogo mi rendo conto di quale enorme eredità mi abbia
tramandato mio padre - Francesco. Ascolto, infatti, i racconti dei miei
colleghi di università e mi accorgo che è un privilegio poter fare pratica
in casa propria.
Nei sistemi di common law, un
laureato in giurisprudenza è identificato con il titolo di Juris
Doctor. Mi piace prendere in prestito questa dicitura - non solo
perché è altisonante - ma anche perché rende bene l'idea sullo scopo
dell'Università: dovremmo essere, infatti, dei pensatori scientifici.
Mi torna in mente un avviso dell'O.A. nel
quale c'era scritto che indossare la toga è un onore, poiché simboleggia
l'alta funzione che l'avvocato è chiamato a espletare.
L'alta funzione…
L'alta funzione della Giustizia si perde
nella tassazione sfrenata imposta da un legislatore avido e sordo.
L'alta funzione della Giustizia si perde
nello squallore di bui edifici pubblici, tra corridoi soffocanti e locali
tutt'altro che a norma di legge. Ed è proprio in questi luoghi che più
volte in uno stesso giorno tocca porre a degli sconosciuti l'irritante
domanda: «Scusate: chi è l'ultimo?».
Code improvvisate, fogli accattati alla
buona sui quali vengono annotate sfilze di nomi anonimi. Nomi che, quanto
più si moltiplicano tanto più diventano odiosi. Ogni nome, infatti,
allunga l'attesa ed esaspera l'animo di chi vorrebbe essere altrove,
magari a studiare per la Giustizia, per la Cultura. Il ritornello è
il medesimo in ogni ufficio: che si intenda effettuare una notifica
o controllare l'esito di un pignoramento o richiedere la copia di un
atto non importa. Ci vorranno ore e non ci si potrà esimere dal prendere
il proprio posto nella lista, attendendo in silenzio con ben educata
rassegnazione.
Essere portati ad elemosinare un servizio
dovuto, equivale al più grande fallimento del servizio stesso.
Non contenti di ciò, tutti gli uffici chiudono
alle 11:30 - lasciando fuori moltitudini di sfortunati che saranno costretti
a ritornare l'indomani per il solo fatto di trovarsi nell'ultimo foglio
della lista. Perché succede anche questo: ad un certo punto gli impiegati
sono costretti a ritirare le liste, a tirar via i distributori ticket
per l'eliminacode e a chiudere le porte.
Nonostante la politica di Roma abbia deciso
di sopprimere tutti i tribunali periferici, gli sportelli aperti al
pubblico sono sempre i medesimi, con la differenza che adesso vi si
affolla tutta la provincia. Mi domando cosa succeda nelle grandi città
italiane.
Quello che si chiede ai professionisti
intellettuali, in questi tempi, è di impiegare il proprio tempo alla
stregua di funamboli, sacrificandosi secondo le disposizioni di poteri
innominati - dubbiamente legittimi - che non sembrano in grado di fare
quel poco che potrebbe bastare a fornire strutture adeguate e servizi
più efficienti.
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