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Data: 12/01/2014 18:00:00 - Autore: Luigi Vitale Nel 1936, sette anni dopo la "Grande Depressione" Keynes pubblicò la sua "Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta". Una delle equazioni fondamentali evidenziate nell'opera del grande economista inglese era quella secondo la quale la somma algebrica dei risparmi meno gli investimenti, più la spesa pubblica meno le tasse, più le importazioni meno le esportazioni, è (o dovrebbe essere), uguale a zero [(S - I) + (G - T) + (M - E) = 0]. In altre parole, il disavanzo pubblico sommato al disavanzo commerciale dei conti con l'estero dovrebbe essere pari ai risparmi della popolazione. Si tratta di un momento di equilibrio nell'economia che, tuttavia, periodicamente si rompe. Eppure, il meccanismo appare molto semplice: la somma dei risparmi al netto di quella parte investita in beni reali, come ad esempio una casa, deve compensarsi con il saldo import/export, equilibrando così il bilancio pubblico. Ne discende come corollario che: se quest'ultimo dovesse chiudersi in deficit, dovrà verificarsi un saldo positivo delle esportazioni di pari importo. Laddove anche questo fosse negativo, allora sarà necessario il bilanciamento con il risparmio dei cittadini, in ottemperanza al principio di rango costituzionale del pareggio di bilancio pubblico. L'equilibrio del bilancio commerciale, fermo restando che non è possibile rinunciare ai beni necessari a livello nazionale, dipenderà a questo punto, a livello aggregato, dalla capacità competitiva di esportare. Quanto al risparmio, invece, lo stesso è elemento complementare al consumo: dato un certo reddito, infatti, una quota verrà destinata al consumo e il resto verrà risparmiato. La propensione al risparmio dipenderà ovviamente dal reddito disponibile, al netto delle imposte. In ogni caso, la somma accantonata sarà, a sua volta, reinvestita nell'acquisto di strumenti finanziari (titoli privati o pubblici; depositi; ecc.) o in beni reali (auto; casa; ecc.) sino a che l'intero valore verrà trasformato in liquidità. A questo punto, si rende necessario aprire una piccola parentesi sulla moneta. Per Keynes e la precedente scuola di pensiero economico la moneta non influisce direttamente sui principi fondamentali dell'economia, anzi si comporta come se fosse invisibile (c. d. teoria della moneta velo). Il prezzo della moneta (il tasso d'interesse) così come il prezzo del lavoro (salari e stipendi) dipendono esclusivamente dall'incontro della domanda e dell'offerta sul mercato. Esattamente come qualsiasi bene commerciale. Fu l'economista statunitense Milton Friedman (1912 -2006) a teorizzare un'ulteriore componente in grado di influenzare il valore intrinseco della moneta: la quantità (c. d. teoria quantitativa). In sostanza, è possibile sostenere, anche empiricamente, che un aumento della moneta circolante può causare (sempre che, come sostiene Keynes, ci sia un'aspettativa positiva da parte degli operatori) un aumento della propensione al consumo e agli investimenti. Di conseguenza, dovrebbero aumentare sia la produzione che l'occupazione. Peccato che, in presenza di aspettative negative da parte degli imprenditori e dei consumatori, questo non succede. Vero è, come dimostrato empiricamente, che se la circolazione, invece, viene fatta diminuire (attraverso una politica monetaria restrittiva), le conseguenze sono sempre evidenti, consistendo in una diminuzione significativa dell'inflazione. Restando in tema di teorie monetarie, un cenno merita quella che è stata battezzata come nuova "eresia economica": la Modern Money Theory. In realtà, si tratta di una teoria che ha radici antiche, proponendosi come erede del pensiero keynesiano adattato alle sfide del XXI secolo. Rilanciata negli ambienti universitari del Missouri-Kansas City, la nuova scuola di pensiero annovera tra i suoi principali esponenti economisti del calibro di Stephanie Kelton, William Black, Michael Hudson, Randall Wray e, in particolare, James K. Galbraith, economista di Harvard e figlio del noto John, consulente dei Kennedy e studioso della Grande Depressione. Oggi come allora, quando per riemergere dal crac del 1929 l'Occidente abbandonò l'austerity e usò il pensiero di Keynes, inventando il New Deal, gli alfieri della MMT sostengono con certezza che si può uscire dalla crisi, riallacciandosi alle teorie del loro padre putativo. Ma andando ben oltre. L'assioma della Teoria Monetaria Moderna è che lo Stato dotato di sovranità monetaria non può fallire poiché la sua capacità di pagamento è illimitata. In altre parole, non esisterebbero tetti al debito pubblico perché una nazione ha il potere illimitato di finanziare i disavanzi stampando altra moneta. La MMT assegna addirittura un ruolo necessario e benefico al deficit: il disavanzo dello Stato vuol dire ricchezza per il settore privato, famiglie e imprese, mentre la virtù dei conti pubblici diventa sofferenza e povertà. Com'è evidente, la recente teoria si pone in netto contrasto con le politiche economiche degli ultimi anni che si muovono, invece, all'insegna dell'austerity. Riassumendo quanto anticipato sinora, è possibile tracciare alcuni punti fermi: 1) Il bilancio pubblico (la spesa pubblica meno le tasse) dovrà tendere a zero; 2) L'inflazione potrà essere controllata (normalmente in un range da 1% a 2%. Ma anche un'altra variabile monetaria sembra stabilizzarsi in un range simile: sia la Fed, che La BCE, che le principali banche centrali orientali sono propense a mantenere il tasso principale di riferimento al di sotto del 2%; 3) Un importante intervento a livello internazionale (raccomandato da Mario Draghi al meeting G20 di Seul del 2010) prevede una severa regolamentazione nell'ambito degli istituti finanziari, dallo Shadow banking al Moral Hazard alla separazione degli istituti per il credito e quelli per contrattazione speculativa. A questo punto rimangono da regolare in una dimensione normativa, nei giusti margini, il massimo livello della pressione fiscale e il minimo livello salariale che, però, comprenda, senza eccezioni, i costi di previdenza e assistenza sociale. Dopo di che la propensione al consumo e le aspettative imprenditoriali potranno riprendere il loro ciclo naturale. Un doveroso riferimento va, inoltre, a Robert Shiller, il più recente premio Nobel per l'Economia. Egli, attraverso una ricerca empirica, ha dimostrato l'irrazionale progressione dei prezzi dei titoli finanziari ma anche degli immobili, quando le aspettative degli operatori sono molto alte (vedi "Euforia irrazionale" di R. Shiller). In sostanza, in una situazione di politica monetaria espansiva è possibile che il prezzo di riferimento del mercato salga in modo esponenziale senza una ragione che possa giustificare l'aumento del prezzo del bene sottostante. L'esempio che più ci riguarda da vicino è sicuramente la crisi dei subprime del 2007. Prima del crollo e delle tragiche conseguenze, il prezzo degli immobili aveva continuato ad aumentare per anni, senza che nessuno potesse spiegarne la causa. Le bolle speculative, più volte analizzate da Shiller, fanno da presupposto per una crisi finanziaria (v. il 1929, il 1987 o il 2001). Ma nel caso del 2007, oltre al crollo dei prezzi degli immobili deve necessariamente tenersi in considerazione anche una forte diminuzione della forza lavoro e della redditualità che ha fornito le basi per l'esplosione della bolla economica in maniera più devastante che non nelle crisi precedenti. Una crisi occupazionale che, negli ultimi 30 anni, è conseguenza di grandi investimenti e dislocazioni all'estero, in particolare in Oriente, dove la manodopera costa fino a 8 volte di meno. Luigivitale02.wordpress.com
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