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Data: 09/01/2014 14:00:00 - Autore: Sabrina Caporale “Una scelta per l'anonimato che comporti una rinuncia irreversibile alla “genitorialità giuridica” può, invece, ragionevolmente non implicare anche una definitiva e irreversibile rinuncia alla “genitorialità naturale”: ove così fosse, d'altra parte, risulterebbe introdotto nel sistema una sorta di divieto destinato a precludere in radice qualsiasi possibilità di reciproca relazione di fatto tra madre e figlio, con esiti difficilmente compatibili con l'art. 2 Cost. (…) In altri termini, mentre la scelta per l'anonimato legittimamente impedisce l'insorgenza di una “genitorialità giuridica”, con effetti inevitabilmente stabilizzati pro futuro, non appare ragionevole che quella scelta risulti necessariamente e definitivamente preclusiva anche sul versante dei rapporti relativi alla “genitorialità naturale”: potendosi quella scelta riguardare, come opzione eventualmente revocabile (in seguito alla iniziativa del figlio), proprio perché corrispondente alle motivazioni per le quali essa è stata compiuta e può essere mantenuta”. Questo è quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 278 del 22/11/2013, ove dichiarava l'illegittimità costituzionale dell'articolo 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dall'art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), nella parte in cui non prevede – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell'art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127) – su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, ed in particolare, «nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare la persona adottata all'accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non volere essere nominata da parte della madre biologica». La vicenda traeva origine, dall'istanza presentata da una donna, nata nel 1963 e adottata nel 1969, la quale esponeva di essere venuta a conoscenza della sua adozione soltanto in occasione della procedura di separazione e divorzio dal marito e che la ignoranza delle sue origini le aveva cagionato vari condizionamenti anche di ordine sanitario, limitando le possibilità di diagnosi e cura per patologie, che avrebbero dovuto comportare una anamnesi di tipo familiare. La stessa, precisava che la sopracitata istanza non voleva essere un pretesto per «chiudere un conto con il passato» e dunque, una rivendicazione nei confronti della madre biologica (…). Di qui, la richiesta di conoscere le generalità della madre naturale. A fronte di una simile richiesta, il Tribunale di Catanzaro, rilevava che a dispetto della “riconosciuta possibilità dell'adottato che abbia compiuto i 25 anni di accedere ad informazioni riguardanti i propri genitori biologici, previa autorizzazione del Tribunale per i minorenni, tale possibilità è, invece, esclusa laddove – come nel caso di specie - le informazioni si fossero riferite alla madre che avesse dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai sensi dell'art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127)”. Ciò premesso e, contrariamente alla normativa vigente, il Tribunale dei minorenni di Catanzaro, non potè astenersi dal riconoscere che “la conoscenza delle proprie origini rappresenta un presupposto indefettibile per l'identità personale dell'adottato, la quale integra un diritto fondamentale, che viene tutelato sotto il profilo della immagine sociale della persona; vale a dire, di quell'insieme di valori rilevanti nella rappresentazione che di essa viene data nella vita di relazione, come consacrato dall'art. 2 Cost.. (…) Il diritto, poi, alla identità personale ed alla ricerca delle proprie radici, è salvaguardato dagli artt. 7 e 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo (New York il 20 novembre 1989 – e resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176 –) che assicurano, appunto, il relativo diritto a conoscere i propri genitori ed a preservare la propria identità – nonché dall'art. 30 della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale (Aja il 29 maggio 1993 - resa esecutiva con la legge 31 dicembre 1998, n. 476), la quale impone agli Stati aderenti di assicurare l'accesso del minore o del suo rappresentante alle informazioni relative alle sue origini, fra le quali, in particolare, quelle relative all'identità dei propri genitori. Non solo. (…) un simile diritto è stato “di recente riaffermato e puntualizzato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, nella sentenza Godelli contro Italia del 25 settembre 2012, nella quale si è affermato che, nel perimetro della tutela offerta dall'art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, rientra anche la possibilità di «disporre dei dettagli sulla propria identità di essere umano e l'interesse vitale, protetto dalla Convenzione ad ottenere informazioni necessarie alla scoperta della verità concernente un aspetto importante della propria identità personale, ad esempio l'identità dei genitori»”. (…) “Il diritto a conoscere le proprie origini contribuisce, dunque, in maniera determinante a delineare la personalità di un essere umano e rientra, quindi, nell'ambito dei principi tutelati dall'art. 2 Cost., che nella specie risulterebbero violati: negare, infatti, a priori l'autorizzazione all'accesso alle notizie sulle proprie origini, in ragione del fatto che il genitore abbia dichiarato di non voler essere nominato, compromette il diritto all'identità personale dell'adottato”. Al tal proposito sarebbe auspicabile -a giudizio del Tribunale di Catanzaro - che in presenza della richiesta del figlio, la madre fosse posta in condizione di ribadire o meno la scelta fatta molti anni prima, considerato che il mutamento del costume sociale non fa più percepire come un disonore la nascita di un figlio fuori del matrimonio. Una diversa soluzione, quale quella contenuta dalla normativa vigente, violerebbe e viola anche il principio di uguaglianza, “trattando in modo diverso l'adottato la cui madre non abbia dichiarato alcunché e quello la cui madre abbia dichiarato di non voler essere nominata, senza considerare l'eventualità che possa aver cambiato idea e lei stessa desideri avere notizie del figlio”. Non solo. Essa, “operando solo a tutela dell'anonimato, discriminerebbe irragionevolmente gli adottati, in quanto diversamente dal caso di genitori naturali che non hanno dichiarato di non voler essere nominati – e che possono in concreto essersi opposti all'adozione, così da rappresentare un potenziale pericolo per la famiglia adottiva – un simile rischio non è rappresentato dal genitore il quale abbia richiesto l'anonimato. E comunque, già, l'impossibilità di accertare, se la madre abbia mutato orientamento circa l'anonimato costituisce violazione del principio di uguaglianza ! Le violazioni all'ordinamento costituzionale, tuttavia, non sarebbero le sole citate. Una simile disposizione andrebbe a compromettere, altresì, l'art. 32 Cost., in quanto l'impedimento alla conoscenza dei dati inerenti alla madre naturale priverebbe l'adottato di qualsiasi possibilità di ottenere una anamnesi familiare, essenziale per interventi di profilassi o di accertamenti diagnostici, essendo già egli privo di notizie circa la storia sanitaria del ramo paterno del proprio albero genealogico; oltreché dell'art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all'art. 8 della CEDU, per come interpretato dalla Corte di Strasburgo nella già richiamata sentenza nel caso Godelli contro Italia, ed in particolare, nella parte in cui ha ritenuto che la normativa italiana in materia violi l'art. 8 della Convenzione, non essendo stati bilanciati fra loro gli interessi delle parti contrapposte. Ebbene, proposta, sulla base di tali argomentazioni, questione di legittimità costituzionale da parte del Tribunale di Catanzaro, la Corte Costituzionale si pronunciava per il suo accoglimento, nei termini di cui appresso. Come più volte ricordato “il nucleo fondante della scelta allora adottata dal legislatore è da ricercasi nella ritenuta corrispondenza biunivoca tra il diritto all'anonimato, in sé e per sé considerato, e la perdurante quanto inderogabile tutela dei profili di riservatezza o, se si vuole, di segreto, che l'esercizio di quel diritto inevitabilmente coinvolge. (…) Il fondamento costituzionale del diritto della madre all'anonimato riposa, infatti, sull'esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali, tale da generare l'emergenza di pericoli per la salute psico-fisica o la stessa incolumità di entrambi e da creare, al tempo stesso, le premesse perché la nascita possa avvenire nelle condizioni migliori possibili. E ciò perché, la salvaguardia della vita e della salute sono, i beni di primario rilievo presenti nel nostro ordinamento. Bene di primario rilievo oltreché, significativo per il nostro sistema costituzionale, è altresì “il diritto del figlio a conoscere le proprie origini – e ad accedere alla propria storia parentale. (…) E il relativo bisogno di conoscenza rappresenta uno di quegli aspetti della personalità che possono condizionare l'intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale”. Ciò premesso, il nostro sistema – aggiunge la Corte - sembra, tutt'al contrario, prefigurare una sorta di “cristallizzazione“ o di “immobilizzazione“, che non lascia spazio a diverse modalità di azione: “una volta intervenuta la scelta per l'anonimato, tale manifestazione di volontà assume i connotati di irreversibilità destinati, sostanzialmente, ad “espropriare” la persona titolare del diritto alla conoscenza della propria identità da qualsiasi ulteriore opzione (…). Tutto ciò, peraltro, è inequivocabilmente impresso dall'art. 93, comma 2, del ricordato d.lgs. n. 196 del 2003, secondo cui «Il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della facoltà di cui all'articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento». Ebbene, è proprio questa “irreversibilità del segreto” a rendere illegittimità la norma de quo! La ratio fondante del sistema, come sopra ricordata, divisa tra l'esigenza di “prevenire turbative nei confronti della madre in relazione all'esercizio di un suo “diritto all'oblio”, e quella di salvaguardare erga omnes la riservatezza circa l'identità della madre, evidentemente considerata come esposta a rischio ogni volta in cui se ne possa cercare il contatto per verificare se intenda o meno mantenere il proprio anonimato”, pare non essere soddisfatta quanto alla vigente normativa, né circa la prima né circa la seconda delle esigenze citate: “non la prima, in quanto al pericolo di turbativa della madre corrisponde un contrapposto pericolo per il figlio, depauperato del diritto di conoscere le proprie origini; non la seconda, dal momento che la maggiore o minore ampiezza della tutela della riservatezza resta, in conclusione, affidata alle diverse modalità previste dalle relative discipline, oltre che all'esperienza della loro applicazione”. “Una scelta per l'anonimato che comporti una rinuncia irreversibile alla “genitorialità giuridica” può, invece, ragionevolmente non implicare anche una definitiva e irreversibile rinuncia alla “genitorialità naturale”: ove così fosse, d'altra parte, risulterebbe introdotto nel sistema una sorta di divieto destinato a precludere in radice qualsiasi possibilità di reciproca relazione di fatto tra madre e figlio, con esiti difficilmente compatibili con l'art. 2 Cost. (…) In altri termini, mentre la scelta per l'anonimato legittimamente impedisce l'insorgenza di una “genitorialità giuridica”, con effetti inevitabilmente stabilizzati pro futuro, non appare ragionevole che quella scelta risulti necessariamente e definitivamente preclusiva anche sul versante dei rapporti relativi alla “genitorialità naturale”: potendosi quella scelta riguardare, come opzione eventualmente revocabile (in seguito alla iniziativa del figlio), proprio perché corrispondente alle motivazioni per le quali essa è stata compiuta e può essere mantenuta”. Così concludendo, la Corte delle Leggi – dichiarata la illegittimità costituzionale della norma de quo nella parte sopra richiamata - affida il compito al legislatore di introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all'anonimato, “secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo”. |
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