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Data: 29/01/2014 10:00:00 - Autore: Sabrina Caporale Trascorrere tante ore davanti al pc è abitudine ormai assai diffusa soprattutto tra i più giovani. Ma quando l'utilizzo smodato e incontrollato della rete può essere indice di disagio e/o di una condizione patologica grave? Ebbene, non molti anni fa (nello specifico nell'anno 1995) uno psichiatra, docente della Colombia University di New York, Ivan Goldberg, coniava ed utilizzava per la prima volta il termine “dipendenza da Internet” o “Internet Addiction Disorder”, per indicare un'alterazione del comportamento che da semplice e comune abitudine, diventa ricerca esasperata e incontrollata, accompagnata da stati psichici quali irritabilità, aggressività, nervosismo, disturbi del sonno, inappetenza o malnutrizione, alterazioni del vissuto temporale e della cognitività, totalmente indirizzata all'uso compulsivo del mezzo. Si tratta, invero, di una dimensione assai complessa, comprensiva di vari fenomeni quali ad esempio la c.d. dipendenza cyber sessuale (o sesso virtuale), in cui i soggetti sono dediti allo scambio continuo e alla visione di materiale pornografico; la dipendenza cyber relazionale ( o delle relazioni virtuali), in cui il soggetto si costruisce una rete di relazioni virtuali che vanno a sostituire totalmente i rapporti della vita reale, causando problemi nell'ambito familiare e relazionale; il Net Gaming, ossia la dipendenza dai giochi di rete che comprende anche il gioco d'azzardo, l'acquisto compulsivo su aste online, l'utilizzo di casinò ondine, che portano alla perdita di ingenti quantità di denaro e di gran parte delle ore del giorno e molto altro ancora (tratto da www.actroma.it). E' un disturbo non ancora sufficientemente accertato almeno sotto il profilo clinico, ma una cosa è certa: l'alienazione dalla vita reale, alla quale si preferisce quella virtuale, è senza dubbio, determinata per l‘instaurarsi di una situazione patologica, alla quale fanno seguito dei disagi a livello psicologico, con una reazione a cascata sull'ambiente familiare, relazionale, affettivo e lavorativo e, i cui segnali d'allarme principale sono: il trascorrere di un'ingente quantità di tempo in rete, tale da perdere la cognizione della realtà esterna; l'irritabilità, aggressività e insofferenza nell'essere interrotti o quando non si ha a disposizione il web; lo stato di euforia durante la navigazione; il desiderio di trascorrere ancora più tempo online e negare, al contrario, di aver passato troppe ore al computer; la tendenza ad utilizzare il computer anche in situazioni in cui il contesto non lo permette; trascurare gli impegni della vita quotidiana (come lo studio, il lavoro, l'igiene personale) e/o intrattenimenti di altro genere (tra cui le amicizie e altre relazioni); “crisi d'astinenza” caratterizzate da ansia, agitazione psicomotoria, movimenti volontari o automatici delle dita, sogni ed ossessioni riguardanti la rete. (tratto da www.actroma.it). Ebbene, il fenomeno non ha risparmiato neanche la Cassazione, la quale si è recentemente pronunciata in materia, con la sentenza n. 1161 del 20 novembre 2013. La vicenda nasceva dall'imputazione a carico del ricorrente, per il reato di detenzione e divulgazione “di un ingente quantitativo di materiale pedopornografico, mediante l'inserimento di link, consentendo agli utenti internet non iscritti al sito di accedere all'area riservata e di scaricare immagini e filmati, tutti di pornografia minorile”. Accertata la condotta materiale posta in essere, lo stesso adduceva a sua giustificazione la “ dipendenza dal computer e da internet “derivante da disagio esistenziale da cui si era liberato dopo aver conosciuto una donna che aveva sposato”. Tale stato veniva, peraltro, accertato dalla perizia medico-legale espletata sull'imputato e dalla quale emergeva che egli fosse affetto da “nevrosi depressiva-Internet Addiction Disorder, [la quale tuttavia], non aveva alcuna incidenza sulla capacità di intendere e di volere. Nella specie, -chiariva la perizia - “la dipendenza da Internet (con ricerca nella rete delle emozioni non trovate nella vita reale) non aveva alcuna incidenza sulle facoltà cognitive, ma solo su quelle volitive. Si trattava, in altre parole, di una “forma di condizionamento dei processi volitivi non derivante da una patologia o da un disturbo conclamato chiaramente riconoscibile”. Con sentenza delle Sezioni Unite del 25.01.2005, n. 9163, la Cassazione ha ricordato che “anche i disturbi della personalità, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di infermità, purché però, siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente e, a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale”. Nel caso di specie, tuttavia, osserva la Corte - nessuna rilevanza può essere attribuita al richiamato “indirizzo ermeneutico -che attribuisce rilevanza ai disturbi della personalità-” laddove trattasi di turbamenti psichici e di incidenza sulle relative facoltà mentali, tutti privi del carattere di gravità e, per l'effetto, nessuna rilevanza può essere riconosciuta all'asserita richiesta di accertamento del vizio parziale di mente (“Nel caso che ci occupa il vizio di parziale di mente non può essere riconosciuto non già perché il disturbo di cui avrebbe sofferto D. non è stato ancora compiutamente classificato, ma piuttosto perché l'incidenza dei turbamenti psichici sulle facoltà mentali dell'imputato è priva dei prescritti connotati di gravità”). Per tali motivi, rigetta il ricorso e condanna l'imputato al pagamento delle spese processuali. |
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