Data: 10/02/2014 12:10:00 - Autore: Avv. Maria Manuela Leuzzi
Avv. Maria Manuela Leuzzi 
Il caso di cui si occupa la Suprema Corte di Cassazione a Sezione Unite, vede come protagonista un uomo il quale ha proposto ricorso in Cassazione avverso la sentenza della Corte d'Appello di Perugia che ha accolto parzialmente la sua domanda volta ad ottenere l'equo indennizzo del danno non patrimoniale subito per l'irragionevole durata di una vertenza di divisione ereditaria.
Nella specie, l'indennizzo era stato riconosciuto esclusivamente per il periodo in cui lo stesso si era costituito in giudizio e non, invece, per il lasso di tempo in cui era rimasto contumace.
Premesso che la contumacia assurge a comportamento processuale della parte, quale forma di esercizio del diritto di difesa, alternativo alla costituzione in giudizio, va evidenziato che, nel caso de quo, i motivi sui quali si articola il ricorso in Cassazione sono sostanzialmente due.
Più precisamente, con il primo motivo si lamenta che erroneamente il giudice d'appello abbia limitato l'indennizzo al periodo successivo alla costituzione in giudizio del ricorrente.
 E ciò in palese violazione sia della L.24 marzo 2001 n.89 ( cd. Legge Pinto), sia dell'art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali che non contemplano alcuna ipotesi di “diritto” ad ottenere l'indennizzo de quo che resta, invece, circoscritto ai soli casi di “partecipazione attiva al processo” protrattosi irragionevolmente.
In merito a tale questione, si è delineato un contrasto tra due orientamenti giurisprudenziali di legittimità, la cui composizione è stata demandata alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
In particolare, un filone giurisprudenziale ritiene che l'indennizzo per durata irragionevole del processo spetti anche a colui il quale rivesta la qualifica di “contumace” ovvero a chi scelga di non costituirsi nel giudizio e, quindi, di non assumere la veste di parte processuale.( Cfr. Cass.Pen. 12 ottobre 2007 n.21508; Cass.Pen.2 aprile 2010 n.8130 ; Cass.Pen. 1 novembre 2011 n.27091; Cass.Pen. 14 dicembre 2012 n.23153; Cass.Pen. 21 febbraio 2013 n.4387).
Altra corrente giurisprudenziale, invece, riconosce agli eredi la possibilità di ottenere l'equa riparazione, successivamente alla morte del de cuius, soltanto laddove gli stessi si siano costituiti in giudizio in proprio.
Tale condizione imprescindibile è strettamente collegata al “patos”, ossia alla sofferenza psichica che solo la parte processuale può subire a causa del superamento del limite ragionevole di durata del processo.
Tra i due orientamenti gli Ermellini ritengono di dover aderire al primo.
Ed infatti, per come evidenziato dai Giudici della Suprema Corte a Sezioni Unite, posto che ogni individuo, sia esso costituito in giudizio o meno, ha diritto ad una definizione del giudizio in tempi ragionevoli, l'art. 2 della L. 27 marzo 2001 n.89 (cd. Legge Pinto) garantisce un equo indennizzo a “ chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale” a seguito della violazione del principio suddetto.
Pertanto, si badi bene, secondo quanto affermato dalla Cassazione a Sezioni Unite, “la tutela è apprestata indistintamente a tutti coloro i quali sono coinvolti in un procedimento giurisdizionale, tra i quali non può non essere annoverata anche la parte non costituita in giudizio nei cui confronti la decisione è comunque destinata a esplicare i suoi effetti”.
Di conseguenza, seguendo l'iter logico-argomentativo dei Giudici di legittimità, non può non ritenersi tenersi conto del disposto di cui all'art. 111 della Costituzione che nel garantire lo svolgimento del processo nel pieno contraddittorio tra le parti , demanda alla legge il compito di assicurare la ragionevole durata dello stesso anche nei confronti del contumace il quale assume, a tutti gli effetti, la qualità di parte processuale.
In buona sostanza, il protrarsi eccessivo del processo, è, senza alcun dubbio, fonte di danno non patrimoniale derivante dall'attesa, prolungata nel tempo, di una decisione che ha sempre effetto sulla parte nei cui confronti viene assunta.
E ciò, ribadiscono gli Ermellini, a prescindere dalla costituzione in giudizio o meno del soggetto che subisce come e comunque una sofferenza psicologica.
Va da sé, quindi, che “ la mancata costituzione in giudizio può eventualmente influire sull'an o sul quantum dell'equa riparazione, ma non costituisce di per sé motivo per escludere senz'altro il relativo diritto” ( Cass. Pen. SS.UU. 14 gennaio 2014 n.585).

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