Data: 09/03/2014 10:30:00 - Autore: Nadia F. Poli
Discriminazione di genere e sessismo, sono spesso la ragione di molti dei problemi e delle sfide cui sono chiamate a far fronte le donne, soprattutto nel mondo del lavoro. Distorsioni culturali, stereotipi e disfunzioni sistemiche sono ben radicati nella società moderna, al punto da permearne il tessuto e da condizionarne le dinamiche. 

Basti pensare alla limitata disponibilità di forme di lavoro flessibili, alla difficoltà di tornare al lavoro dopo un congedo, o alla organizzazione del lavoro, costruito su ritmi prettamente maschili. Per citare alcuni esempi. Dato altrettanto significativo, è la diversa capacità reddituale. A parità di condizioni lavorative, uomini e donne della stesa età guadagnano cifre decisamente diverse e redditi annui superiori ai cinquantamila euro, rappresentano spesso una chimera per molte donne. 

Se da un lato è già stato compiuto un lungo percorso (con risultati visibili e apprezzabili), si sta ancora lottando per evitare che molte donne si trovino nella condizione di dover rinunciare alle proprie ambizioni e ai propri diritti, arrendendosi a metà carriera perché schiacciate dal "tempo macho" (mutuando una espressione coniata da Anne Slaughter, madre di due figli, prima donna nominata Director of Policy Planning e tra le collaboratrici più in vista di Hillary Clinton, che lasciò l'incarico al Dipartimento di Stato per dedicarsi alla famiglia:una dichiarazione di resa che suscitò molto scalpore). 

Il percorso è ancora tutto in divenire: secoli di arretratezza culturale e un processo di parificazione che seguita a procedere a singhiozzi, sono duri a morire e costringono a pagare un pesante tributo. Fu Maria Pellegrina Amoretti, alla fine del XVIII secolo, la prima donna a laurearsi in giurisprudenza mentre la giovane Lidia Poet, che nel 1883 riuscì ad ottenere l'abilitazione professionale, si vide annullare l'iscrizione all'albo dalla Corte di Appello di Torino per "imbecillitas sexus": in sostanza veniva addotta, quale argomentazione della sentenza, l'incapacità naturale della donna ad esercitare la professione legale. La prima vera rivoluzione avvenne nell'agosto del 1919, quando Elisa Comani di Ancona, riuscì ad ottenere l'iscrizione all'albo degli Avvocati e, soprattutto, la difesa in alcuni processi, con ottimi risultati. 
Ma come sono visti gli avvocati donna, in un contesto, quello italiano, ancora farcito di pregiudizi sociali e storici? Gli italiani scelgono l'avvocato in base al sesso o, piuttosto, alla preparazione e alla reputazione professionale? In effetti sembrerebbe che gli italiani continuino a preferire un avvocato uomo, soprattutto se si tratta di questioni di diritto penale. Le donne avvocato sarebbero meno credibili e autorevoli rispetto ai colleghi del "sesso forte". Voi cosa ne pensate? Vi affidereste ad un avvocato donna, senza alcun pregiudizio? A che punto il cammino per il raggiungimento della vera uguaglianza tra i sessi (intesa come possibilità di compiere scelte in modo libero, senza vincoli e condizionamenti di alcun genere) e l'empowerment del "gentil sesso"?

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