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Data: 17/03/2014 10:00:00 - Autore: Licia Albertazzi di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione Civile, sezione terza, sentenza n. 5595 dell'11 Marzo 2014. In tema di interpretazione del contratto esiste una gerarchia tra criteri utilizzati dal giudice al fine di risalire alla reale volontà delle parti. Nel caso di specie l'Ordine degli architetti e ingegneri, proprietario di un immobile, ha intimato sfratto per finita locazione ad un proprio iscritto, a causa dello spirare del termine contrattuale. L'iscritto ha proposto opposizione – ma, dopo la trasformazione del rito, è divenuto soccombente – dunque appello, nella cui sede è stata ribaltata la statuizione di rilascio di primo grado. Avverso tale sentenza propone ricorso la Cassa, lamentando la circostanza che il giudice d'appello avrebbe erroneamente interpretato una clausola contrattuale senza fondare la propria decisione sulla effettiva volontà delle parti. Secondo il ricorrente non bisognerebbe infatti limitarsi al dato letterale ma il giudice del merito avrebbe dovuto prendere in considerazione dello “spirito della convenzione”. A ben vedere si tratta del principio contenuto nell'articolo 1362 del codice civile secondo cui: "Nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto". La Suprema Corte ripercorre gli strumenti, a disposizione del giudice, che devono essere utilizzati nella risoluzione delle controversie sorte circa l'interpretazione dei contratti: “i canoni legali di ermeneutica contrattuale sono governati da un principio di gerarchia - desumibile dal sistema delle stesse regole – in forza del quale i canoni strettamente interpretativi prevalgono su quelli interpretativi integrativi e ne escludono la concreta operatività, quando l'applicazione degli stessi canoni strettamente interpretativi risulti, da sola, sufficiente per rendere palese la comune intenzione delle parti stipulanti”. Secondo la Corte, infatti, la natura pubblica dell'ente stipulante ha giustamente fatto comprendere come in realtà il contratto è giusto che sia interpretato in favore del locatario, “in quanto diretta a porlo al riparo da disdette ad libitum”. Le finalità assistenziali dell'ente sono il criterio principale che il giudice del merito ha preso in considerazione nel riformare la sentenza di primo grado, né la sua motivazione pare, in sede di legittimità, sindacabile al di là del vizio di motivazione, allo stato inesistente. Il ricorso è rigettato. |
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