Data: 18/03/2014 10:30:00 - Autore: Sabrina Caporale

Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, sentenza 6 febbraio – 13 marzo 2014, n. 12021.

Rinviati a giudizio per rispondere del reato di cui all'art. 361 c.p. perché, essendo a conoscenza in ragione del loro ufficio e nell'esercizio delle loro funzioni di pubblici ufficiali, di una notizia di reato, concordavano di omettere di darne doverosa comunicazione all'autorità giudiziaria.

Giunta pronuncia di proscioglimento per insussistenza del fatto, proponeva ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la competente Corte di appello, ivi deducendo difetto di motivazione ed erronea applicazione dell'art. 361 c.p.. Quest'ultimo, nella specie, contestava che il pubblico ufficiale che abbia conoscenza di una notizia di reato a causa e nell'esercizio delle sue funzioni, possa valutare l'effettiva sussistenza giuridica del reato, restandogli esclusivamente la verifica della probabilità della sussistenza del reato stesso; soltanto all'autorità giudiziaria compete, infatti, l'accertamento della notitia criminis. Nel caso di specie, in effetti, gli imputati, appreso il fatto, “avendo certamente apprezzato la probabilità dell'esistenza del reato, quanto meno, sotto il profilo del peculato d' uso, erano tenuti ad informare del fatto l'autorità giudiziaria”.

La pronuncia della Cassazione.

Il ricorso è infondato. Occorre, innanzitutto premettere «che la fattispecie di reato contestata agli imputati va interpretata in consonanza con il disposto dell'art. 331, comma 1, c.p.p. (un precetto collocato nel titolo II del libro V, intitolato, appunto, "Notizia di reato") a norma del quale "i pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio che nell'esercizio o a causa delle loro funzioni o del loro servizio, hanno notizia di un reato perseguibile di ufficio, devono farne denuncia per iscritto, anche se non sia individuata la persona alla quale il reato è attribuito"; la norma in parola è collocata immediatamente dopo quella regolatrice del regime dell'acquisizione delle notizie di reato. Ciò non sta a significare che l'art. 361 c.p. costituisca una norma in bianco. Il suo contenuto precettivo appare, infatti - pur nell'ampiezza delle soggettività destinatarie del dovere la cui omissione è penalmente rilevante, oltre che per la "selezione oggettiva" delle fattispecie, ricavabile dalla necessità che del reato si abbia notizia in relazione alla funzione o al servizio -autosufficiente in quanto la detta norma punisce proprio la condotta del pubblico ufficiale il quale omette o ritarda di denunciare all'Autorità giudiziaria o ad altra Autorità un reato di cui ha avuto notizia a causa o nell'esercizio delle sue funzioni. È certo però che la nozione di notizia di reato oggetto della previsione di cui all'art. 331, comma 1, c.p.p. coincide con "il reato di cui" (il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio) "ha avuto notizia nell'esercizio o a causa delle sue funzioni"».

Ne consegue che «la necessaria procedimentalizzazione della notitia criminis, rilevabile dagli effetti che ad essa conseguono (basti pensare al dovere di iscrizione dal cui esercizio decorrono i termini per il compimento delle indagini preliminari) impone, dunque, di ravvisare in tale nozione la presenza di dati univoci (di precisione e di attendibilità), non molto distanti dalla nozione di "probabilità", indicata - per l'insorgere del dovere penalmente sanzionato - proprio nel ricorso del Procuratore Generale. Posta tale premessa, occorre, dunque, verificare se al momento della conoscenza del fatto o al momento in cui gli imputati informarono delle irregolarità riscontrate si era in presenza di una notizia di reato che venne deliberatamente nascosta all'autorità giudiziaria o ad altra autorità che a questa abbia obbligo di riferire».

Sul punto, rileva la Suprema Corte –che “la situazione che si presentava di fronte agli attuali imputati, non poteva definirsi una vera e propria notitia criminis ma esclusivamente la rappresentazione di un fatto (le descritte anomalie derivanti dall'uso del computer) che nella sua stessa obiettività era insufficiente a delineare una fattispecie di reato, variegate profilandosi le ragioni dell'esorbitante entità degli accessi e delle relative conseguenze patrimoniali. (…) Del resto –aggiunge - la quasi unanime dottrina (in fondo proprio per le ragioni sopra rammentate), pur (ovviamente) non richiedendo la certezza in ordine all'esistenza del reato oggetto della notizia, presuppone che questo si presenti nelle sue linee essenziali, in base ad elementi affidabili; è sufficiente, in altri termini, che il fatto abbia la parvenza della verità; senza per nulla escludere che, soprattutto, nell'area di soggetti estranei a quelli tenuti ad acquisire la notizia di reato, questa possa formarsi progressivamente proprio in forza di più puntuali approfondimenti che consentano al titolare dell'azione penale di dare inizio al procedimento attraverso l'iscrizione. Ciò anche considerando che se la denuncia è funzionale all'inizio delle indagini da parte del pubblico ministero (l'effettivo destinatario della notitia) essa deve tendere al buon esito di tali indagini, con la necessità, insita in quella che si è già definita "selezione oggettiva", di colmare quelle lacune che impediscono qualificare il fatto conosciuto come vera e propria notizia di reato».

Più in particolare e “in termini normativi, la distinzione tra sospetto e indizio di reato (il secondo soltanto riconducibile alla nozione di notizia di reato) emerge con chiarezza dal raffronto tra l'art. 116 e l'art. 220 delle norme di attuazione: il primo richiama il "sospetto di reato" a proposito dell'accertamento della morte ai fini dell'eventuale autopsia (ma v. anche, quale deroga al principio per cui il mero sospetto non fa sorgere il dovere di denuncia, l'art. 9, comma 3, del d.P.R. 10 settembre 1990, n. 285, a norma del quale "Quando si abbia il sospetto che la morte sia dovuta a reato, il medico settore deve sospendere le operazioni e dare immediata comunicazione all'autorità giudiziaria"); il secondo, impone nell'ipotesi in cui nel corso di attività ispettive e di vigilanza emergano "indizi di reato" il dovere di assicurare le fonti di prova e raccogliere quant' altro per l'applicazione della legge penale osservando le disposizioni del codice di rito, dando per presupposta l'esistenza di una notizia di reato. Il che, del reato appare conforme - considerando che solo l'informazione che si sostanzi in una notizia di reato in grado di essere iscritta nel registro di cui all'art. 335 deve essere trasmessa all'autorità giudiziaria - alla giurisprudenza di questa Corte, costante nel ritenere che la presenza di meri e generici sospetti non è sufficiente per disporre l'iscrizione nel registro degli indagati (v., da ultimo, Sez. I, 22 maggio 2013)”.

Alla luce di tutto quanto sin ora premesso, “pare evidente che la verifica circa il presupposto del dovere di denuncia richiede - come è stato rilevato in dottrina - l'apprensione di un elemento concreto costituente il momento più significativo di una norma (…) Ed a tale riguardo non può prescindersi dalle diverse tipologie di reato e dallo specifico ruolo esponenziale che assumono i momenti di ciascuna fattispecie al fine di determinare il dato significante, il frammento (…) Non può negarsi, tuttavia, al soggetto destinatario del dovere di denuncia, l'altrettanto significativo dovere di verifica per sondarne la sua capacità penalmente significativa, pure disponendo accertamenti di ordinamento particolare destinati ad eliminare ogni sospetto sull'esistenza di un reato, ma anche per progredire dalla mera informazione di un fatto non significante ad una verifica che, se positiva, si sostanzierà nell'emergere di una notizia di reato la cui mancata denuncia integrerà il delitto di cui all'art. 361 c.p”.

Rimane, tuttavia, il fatto che nel caso di specie, la sentenza impugnata richiama un "quadro di incertezza e di verosimile dubbio da parte [degli imputati] circa la sussistenza e commissione in concreto del reato e quo, non può dunque che concludersi per il rigetto del ricorso.

 


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