Data: 24/03/2014 14:40:00 - Autore: Sabrina Caporale
di Sabrina Caporale - "La denuncia di un reato perseguibile d'ufficio non è fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante, ai sensi dell'art. 2043 c.c., anche in caso di proscioglimento o di assoluzione, se non quando essa possa considerarsi calunniosa, poiché, al di fuori di tale ipotesi, l'attività pubblicistica dell'organo titolare dell'azione penale si sovrappone all'iniziativa del denunciante, interrompendo così ogni nesso causale tra tale iniziativa ed il danno eventualmente subito dal denunciato". È quanto affermato dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 6554/2014) in occasione di un procedimento avvito al fine di far accertare e dichiarare la condanna al risarcimento dei danni subiti per effetto della presentazione, di una denuncia a suo carico, ravvisando in essa intenti palesemente calunniatori e diffamatori.

Denuncia e calunnia

Con sentenza depositata il 12.5.2008 la Corte d'appello di Roma rigettava l'appello, ritenendo che "nella presentazione della denuncia alla Procura della Repubblica non era ravvisabile calunnia, essendovi stata semplice richiesta all'autorità inquirente di accertare se nei fatti potessero ravvisarsi estremi di reato; la produzione in giudizio della denuncia non appariva illecita poiché, a parte lo scopo dell'iniziativa, [il denunciante] non sapeva che al momento della produzione la denuncia era stata archiviata, e dunque non era ravvisabile dolo né colpa grave".

Il ricorso in Cassazione

Proponeva, pertanto, ricorso per Cassazione, l'originario attore, ivi denunciando che il fatto stesso della presentazione della denuncia sarebbe di per sé lesiva di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, a maggior ragione poiché, come nel caso di specie, era stata presentata, senza la dovuta diligenza.

Nessuna responsabilità risarcitoria

Ebbene, sul punto afferma la Cassazione «che al di fuori dell'ipotesi di calunnia non è ravvisabile responsabilità risarcitoria per la proposizione di una denuncia penale, in quanto l'attività pubblicistica dell'organo titolare dell'azione penale si sovrappone all'iniziativa del denunciante, togliendole ogni efficacia causale e così interrompendo ogni nesso causale tra tale iniziativa e il danno eventualmente subito dal denunciato».

Peraltro, «posto che nella repressione della calunnia, che è un reato plurioffensivo, si tutela, oltre che l'interesse dello Stato alla corretta amministrazione della giustizia, anche l'onore dell'incolpato, la sua libertà, e l'interesse a non essere sottoposto ingiustamente ad un processo penale (Cass. pen. 21.2.2007, n. 10535; 28.4.2010, n. 21789), la doglianza del ricorrente pretenderebbe un'estensione di tale tutela anche oltre l'ipotesi del comportamento calunnioso, evidentemente a tutela degli stessi interessi ora delineati. Il principio sopra enunciato evidenzia l'interesse dell'ordinamento alla promozione dell'azione penale mediante l'informazione dell'autorità inquirente di fatti rilevanti da parte di chi ne sia a conoscenza, con l'unico limite della consapevolezza, da parte del denunciante, dell'innocenza dell'incolpato: non anche allorché i fatti esposti possano avere agli occhi del denunciante qualche rilevanza penale, del che viene investita l'autorità giudiziaria con un'attività che, quale che ne sia l'esito, diviene autonoma rispetto alla notitia criminis che l'ha originata, prevalendo l'interesse pubblico dell'amministrazione della giustizia sull'interesse del denunciato a che non vengano compiute attività di accertamento relative alla propria condotta, salvo l'ipotesi in cui la sollecitazione stessa all'esercizio dell'azione penale non sia oggettivamente e consapevolmente falsa. Nell'ambito di uno Stato di diritto liberaldemocratico, in cui si attribuisce valore civico e sociale all'iniziativa del privato nell'attivare la riposta giudiziaria dinanzi alla violazione della legge penale, è ragionevole che nessuna responsabilità consegua ad una denuncia penale fuori dall'ipotesi di calunnia, autocalunnia e simulazione di reato (Cass. pen. 11.6.2010, n. 29237).

Nel caso di specie, infatti, vi era stata da parte del denunciante, la semplice richiesta all'autorità inquirente di accertare se nei fatti potessero ravvisarsi estremi di reato.

Ne consegue che «non integra la fattispecie di diffamazione la denuncia di un reato e quindi, pur quando il denunciato sia assolto con la formula più ampia, non è configurabile in capo al denunciante una responsabilità per danni (Cass. pen. 7.3.2006, n. 18090)».


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